(pagg. 603-616) Una ‘Storia d'Italia’ alternativa?
La grande Alfa Romeo si librò veloce sull’asfalto della Statale 106 Jonica, con Dompson seduto dietro in febbrile eccitazione. «Un giorno la paura bussò alla porta, il coraggio andò ad aprire e non trovò nessuno». Beh, qualcuno c’era. E prima di lasciare la città c’era stata pure una sommaria perquisizione, ma ovviamente nessun’arma gli era stata trovata addosso.
– Perché “fuma catene”? – chiese l’inglese per rompere il ghiaccio. L’uomo alla guida, un robusto filibustiere vestito di grigio con camicia nera e cravatta bianca, come nella migliore tradizione cinematografica italo-americana, si voltò ridendo verso la sentinella, seduta davanti a destra. Che rise a sua volta e tacque. «La cultura dell’ammiccamento», o solo scortesia innata.
Il mare Jonio alla loro destra brillava d’una fuliggine madreperlacea che si spandeva ben oltre la spiaggia, lambendo il territorio e conferendogli un aspetto da leggenda celtica. Le case, la ferrovia, gli alberi e le colline avevano i contorni appannati. Era straordinario come quella landa del Mediterraneo sapesse cambiare veste ogni giorno, quasi a voler recitare di continuo un nuovo ruolo geografico — o a cercare, perennemente insoddisfatta, i suoi panni definitivi —; con un habitat costantemente proiettato alla ricerca di un’identità perduta, non doveva sorprendere che, come aveva riflettuto Berrouli nel suo documento, il popolo calabrese fosse irretito da una retorica dell’ambiguità che ne rendeva così immodificabili e invalicabili i destini: il fatalismo aveva il primo testimone in madre natura.
L’auto di grossa cilindrata abbandonò la strada a scorrimento veloce in un punto in cui non costeggiava più il mare e s’inerpicò per uno sterrato circondato da sterpaglie giallastre secche; superò il declivio d’una collina e prese a discendere in una piccola valle verde e deserta che ricordò a Dompson la natìa Irlanda, quindi ci fu una nuova salita, ancor più scoscesa e curvilinea, e poi una seconda discesa in una nuova e sassosa distesa, in fondo alla quale apparve, in pigra monotona attesa, un antico monastero in pietra.
L’Alfa si fermò davanti all’ingresso, un gigantesco portale in legno scuro consumato dal tempo e dalla salsedine che, malgrado il riparo offerto dalle colline, si faceva sicuramente sentire fin lì.
Cymetral fu invitato a scendere da una convinta gesticolazione dei due balordi. Un frate sbucò da una porticina ricavata dentro il portale ligneo: aveva una tonaca color cioccolata dalla quale faceva capolino qualcosa di bianco, e indossava sandali senza calze. Lo invitò ad avvicinarsi, e quando il reporter dell’Associated Press aveva mosso tre passi in una sperduta vallata calabrese del 38° Parallelo, l’auto che ce lo aveva portato ripartì alzando un polverone.
Il frate non era più alto di un metro e sessanta, aveva il volto rubizzo di un bevitore di vino buono ed uno smisurato neo peloso sull’arcata sopraciliare sinistra.
– Venga – disse con voce debilitata. – Coraggio, venga.
L’inglese giunse al portale osservando con curiosità le mura del monastero, d’un atavico e roseo grigio.
L’ecclesiastico lo guidò attraverso un cunicolo in penombra dove la temperatura sembrava più rigida e umida dell’esterno. Pietra e legno scuro corroso, senza soluzione di continuità. Camminarono per centocinquanta metri, e infine l’ambiente si aprì in un confortevole chiostro, illuminato dal sole, con al centro piante ornamentali e palmizi ben curati; attraversarono un corridoio di colonne, poi s’infilarono di nuovo al chiuso e seguirono un selciato levigato circondato d’erba spontanea ai due lati. Infine, quando già Dompson stava cominciando a chiedersi se in caso di fuga sarebbe mai riuscito a ritrovare l’uscita, giunsero davanti ad una grande porta con un anello bronzeo. In tutto quel percorso non avevano incrociato anima viva.
Il frate picchiò l’anello due volte sul legno dell’uscio.
Una voce urlò «entrate pure» dall’interno. Il frate aprì e con un gesto della mano sinistra invitò Cymetral ad avanzare.
L’inglese mosse due passi dentro. La luce era fioca, e le forme degli oggetti d’arredamento erano quasi indistinguibili. Intravide una figura umana in fondo. La porta gli si richiuse dietro.
– Bene, mister Dompson – disse una voce anziana passata su una grattugia. – Vi ascolto.
Cymetral s’imbalsamò nel punto in cui s’era bloccato. Attese che i propri occhi si adattassero.
– Il signor Pace? Sinurras Pace?
La sagoma armeggiò qualcosa che produsse un piccolo tonfo attutito, quindi si mosse verso di lui.
– Presente, e per servirvi.
Gli arrivò alla distanza d’un braccio steso e si fermò.
– Che cosa vorrebbe sapere, l’Associated Press? – chiese la sagoma con quel suo vocione roco. – E per quale motivo vi siete installato in quell’appartamento che non vi appartiene, giovanotto?
Dompson non si aspettava quella domanda così presto, ma aveva già preparato una risposta ad hoc, cosciente del fatto che Enrica Iannimarx s’era dovuta “muovere in qualche modo” — aveva “parlato” intercedendo con “amici degli amici” — per far fronte alle minacce della sentinella o di chi da ben più in alto dava gli ordini.
– Guardi, signor Pace – mentì senza tentennamenti, – io ed il signor Berrouli abbiamo fatto insieme la traversata del Mediterraneo in barca a vela ed abbiamo un profondo rapporto di amicizia, ma siccome ho perso le sue tracce da un mucchio di tempo, ho deciso di venire a vedere di persona che fine avesse fatto... E ho trovato due ostacoli: da un lato, uno dei suoi uomini, quello con l’impermeabile, che staziona minacciosamente davanti al portone di casa Berrouli,
Cymetral s’interruppe bruscamente: in quel preciso istante, per qualche stranissimo motivo, ebbe l’intuizione fulminante che il tipo elegante con la spilla smaltata poteva essere l’intruso di casa Tryllian coinvolto nella sparatoria con Fibula’r ed Enetro: Almon Comesichiamalui. «Ma perché certe cose mi balzano in testa nei momenti meno opportuni?» si indispettì con se stesso.
– E dall’altro lato? – chiese la sagoma.
L’inglese aveva perso il filo. Stava realizzando che il secondo visitatore, quello magro che aveva parlato, doveva allora essere lo sparatore. Che rischio aveva corso!
– Signor Dompson, ma che minchia vi state inventando?
Lo sbotto fece trasalire di nuovo il reporter inglese: come aveva fatto a dimenticarsi chi aveva di fronte?
– Eh?... Come... – balbettò. Le gambe cominciarono a perdere forza. Tentò disperatamente di tornare presente a se stesso. «La paura bussò e il coraggio si guardò bene dall’aprire...».
– Voi siete amico di questo Berrouli, ci andate per mare insieme, e poi mi mandate un pezzo di carta dove mi chiedete di intervistarmi? Ma-che-minchia-dite,-forestiero? – concluse il vocione grattugiato parlando come un telegrafo e ridendo senza sorridere.
– Glielo stavo spiegando... – ansimò Cymetral – approfittando del fatto che venivo qui in Calabria per la mia inchiesta, avevo pensato di farmi ospitare da Tony, per evitare che il soggiorno mi costasse troppo. Come dite, qua in Italia, “prendere due piccioni con una fava”? Tutto qui.
La sua mente stava funzionando a strappi: lunghe pause e improvvise quanto inattese accelerazioni. La figura davanti a lui non disse nulla, ma l’inglese poté percepirne il respiro, il fiato asmatico di chi era molto avanti con l’età e si era per una vita nutrito di mille calorie quotidiane di troppo. Che diavolo ci faceva in un perduto monastero calabrese a tu per tu con colui che la gente indicava come il capo assoluto della ’Ndrangheta? E perché un tale boss l’aveva ricevuto in un luogo simile? O, domanda più sensata: perché mai l’aveva ricevuto? Era assurdo. E solo adesso se ne rendeva conto.
Il Fumacatene si allontanò di qualche passo e, dopo un attimo che sembrò non aver termine, una piccola e cruda luce si accese: dal soffitto, rimasto in ombra, pendeva un filo bianco con l’attacco per una lampadina trasparente da non più di 40W.
E finalmente Cymetral Dompson poté vedere chiaramente l’uomo che aveva di fronte: un anziano signore di corporatura normale, forse lievemente sovrappeso, con i capelli ancora in gran parte neri, lisci, pettinati sulla fronte con un leggero ciuffo ribelle; il volto fiero e tranquillo, gli occhi piccoli, scuri, vitali; baffi sottili e guance in cui era possibile individuare una netta linea di demarcazione fra la pelle ove cresceva la barba e il resto glabro al di sopra; le sue mani erano ruvide e con le vene in rilievo sul dorso, rivestite da una leggera peluria bianca. Indossava un maglione nero a collo alto di grana grossa intrecciata; i pantaloni beige sembravano stirati di fresco.
E poté vedere anche la stanza: spoglia, in pietra, tre metri per tre con un letto, un tavolo, due sedie, un armadio in legno così scuro che sembrava grafite, forse ebano, ed un comodino sul quale giacevano un bacile pieno d’acqua, un asciugamano bianco ripiegato, un piccolo specchio rettangolare, un rasoio chiuso, un pennello, una saponetta verde-marcio. Sulla parete sopra il letto era appesa, probabilmente ad un chiodo, una giacca dello stesso colore dei pantaloni del Fumacatene. La coperta che copriva il letto — un vecchio letto di legno con la testiera liscia e con uno spessore così alto che i materassi potevano anche essere due o tre — sembrava del tipo usato dai militari. Sul tavolo, nero come l’armadio, c’erano una candela consumata a metà, un librone dalle cui pagine sporgeva un segnalibro in nastro rosso, un piatto pulito con dentro le posate, una bottiglia verde piena d’un liquido porpora, sicuramente vino, tre bicchieri.
L’inglese ebbe la sensazione che quella stanza non fosse un luogo estemporaneo scelto per “l’intervista”, ma la dimora abituale di quell’uomo. Era la tana del più importante lupo di Calabria, e l’intuizione gli procurò un curioso sentimento, come un rispetto nostalgico di cose andate, che attenuò la sua paura.
Un ulteriore strappo in avanti della sua mente lo portò a capire che non era lì perché lo aveva chiesto con un biglietto idiota e presuntuoso messo in mano ad un galoppino affacciandosi ad una finestra. Si trovava lì perché era Sinurras Pace, a volere qualcosa da lui.
Il Fumacatene riempì di liquido porpora uno dei bicchieri e con un gesto antico glielo porse senza guardarlo negli occhi. Cymetral lo raccolse con un ossequio silenzioso e lo bevve con voluttà: era uno squisito nettare dal profumo di Grecia e di dèi olimpici.
– Che cosa state scrivendo, sulla Calabria? – chiese il boss scostando una sedia dal tavolo e sedendovisi al contrario a cavalcioni, per poter poggiare i gomiti sullo schienale. Adesso aveva uno sguardo intenso e magnetico. Le persone comuni guardano le cose nuove con occhio vecchio, le persone fuori dal comune vogliono osservare le cose vecchie con occhio nuovo.
Dompson si sentì a disagio, là, in piedi al centro di quel turibolo, con il boss seduto di fronte. Era nudo sul palco d’un teatro affollato. Gli venne voglia di confessare la realtà, di offrire sincerità assoluta a quell’uomo che doveva avere il doppio dei suoi anni e un’infinità d’acqua lurida fluita via sotto i ponti.
– Sarò franco, con lei, signor Pace – fece con il petto pieno di fiato fin quasi a scoppiare. – Sto realizzando un’inchiesta sull’Italia del Sud del terzo millennio. Ma, da quando sono arrivato, non sento altro che parlare di lei come del “capo dei capi”. E mi sono detto «Dompson: tu non te ne vai da qui finché non l’hai intervistato». Se poi riesco pure a rivedere Tony, tanto di guadagnato... Nel frattempo mi sono imprestato la sua casa, così se rientra...
Non era mica assodato, che quello fosse “il capo dei capi”: in fondo, glielo aveva detto solo Fred Dino. E inoltre, da quando era arrivato, ne aveva parlato in più solo l’amica di Berrouli. La verità era che la potenza evocativa di quel soprannome, il “fuma-catene”, lo aveva ammaliato. Suonava affascinante anche nella sua lingua madre: the Chainsmoker. Ci si poteva fondare una rock-band. Ci si poteva ricavare energia pulita per un continente intero.
Il Chainsmoker rise e si versò un bicchiere di vino. Cymetral doveva averne solleticato la vanità.
– Questa è una terra che vive di mitologia – dichiarò il boss, e mandò giù metà del suo calice. Quindi finalmente tirò via dal tavolo la seconda sedia e la offrì al reporter inglese.
– Grazie – disse Cymetral, e si accomodò sull’impagliatura artigianale della seduta. – Posso cominciare a farle delle domande?
La balla dell’intervista sembrava reggere; però ora, oltre ad improvvisare le domande, Dompson doveva anche trovare il sistema per scoprire perché il boss dei boss s’interessava a Berrouli.
– No, voi non mi dovete chiedere niente – disse Sinurras Pace.
Dompson s’immobilizzò e attese con una punta d’angoscia.
– E smettetela di tremare – aggiunse il Fumacatene. La frase fu una specie di schiaffo sui testicoli per l’inglese. – Se mi servivate morto, a quest’ora non eravate qui ma già dentro una bara su un aereo per Londra.
Logico e agghiacciante. La testa di Cymetral prese l’ascensore del terrore e discese di due piani in mezzo agli omeri. Il boss si alzò e andò accanto alla porta, accostandovi l’orecchio, quindi la aprì, richiuse e tornò a sedere a cavalcioni. Fissò il suo interlocutore.
– Ditemi una cosa, inglese: dove verrà pubblicato, il vostro articolo? In quali Paesi?
Cymetral sentì che dalla risposta poteva dipendere la sua vita. Avrebbe voluto fermare il tempo e scegliere, ma l’ennesima accelerazione del suo intuito gli fece capire subito la domanda e l’intero Sacro Perché™ del trovarsi là col Mammasantissima.
– Dappertutto. Washington Post, New York Times, ma anche Frankfürter Allgemeine, Bild Zeitung, Der Spiegel, Times, Newsweek, Le Monde, Corriere della Sera...
Aveva sparato nel mucchio tentando di citare i nomi famosi che potessero suonare più familiari al superboss. E poco importava che, a parte il primo marchio, nessun’altra delle testate menzionate aveva ancora mai pubblicato un suo pezzo. Non si chiamava mica Wilson Fibula’r, lui era solo Cymetral Dompson, scribacchino di second’ordine e di sangue irlandese che era riuscito a fare un pezzettino di carriera copiando un sito Internet per un’inchiesta sul “caso Moro”.
Il Fumacatene sembrò soddisfatto.
– Signor Dompson, io adesso vi dico qualcosa che voi non scriverete mai, e poi vi dico delle altre cose che voi invece scriverete assolutamente, perché vi consegnerò pure dei documenti.
– La ascolto, signor Pace.
– Voi sicuramente volevate parlare della ’Ndrangheta, della Mafia e di tutte queste belle cose qui. Giusto?
– Osso Mastrosso e Carcagnosso – rispose Dompson sorridendo e millantando il credito di saperla lunga. Sinurras rise come se gli avesse nominato Stanlio e Ollio.
– Uh, ma i vostri lettori hanno bisogno per forza di folklore, per mettersi a leggere?
– Eh, sa com’è – disse Cymetral con forzata leggiadrìa, – bisogna dar spettacolo, spiegare i costumi locali... La gente ne va pazza.
«Cazzarola, sono un impostore più in gamba di Wilson!»
– E vabbé, allora fatemi queste benedette domande – rise “the Chainsmoker”; quindi, divertito, poggiò il gomito sullo schienale della sedia e il mento sul palmo aperto della relativa mano.
– Anzitutto, da dove viene il termine? “Ndrangheta”, cioè.
– Dal greco. “Andros” e “agatos”. Significa “uomo migliore”. La prima comparsa della parola ’ndrangheta in documenti ufficiali risale al 1884, nella relazione del prefetto di Reggio Calabria, Tamajo, fatta al Ministro degli Interni. Ma guardate che non si chiama più “ndrangheta” da 25 anni, inglese.
– Ah no? E come si chiama, oggi?
– Ora si chiama “la Santa”. Sapete quando è nato il primo santista? Il giorno della nascita del nostro santo Cristo: il 25 dicembre infatti è stato santizzato il Santista il quale dimostra di essere tale per mezzo di una croce dietro la spalla destra che il capo santista gli ha dato e il Santista ha accettato e tutta la Santa Corona ha confermato. Sapete come si salutano gli uomini prima della riunione?
– Le spiace se prendo appunti? – fece Dompson tirando fuori da una tasca il piccolo Palm donatogli da Bulvina. Ormai aveva imparato ad usarlo con una certa destrezza.
– Fate, fate. «Santa sira a li santisti», oppure «Siete pronti a sformare la Santa?», e poi c’è il proclama che dice «In questa notte santa, sotto la luce delle stelle e lo splendore della luna, è sformata la Santa Corona, dal capo santista, maestro di controllo e scorta distaccata».
– Interessante. Mi dica qualcosa sui riti di iniziazione.
– I riti? Eh, beh... L’età minima per essere nominato “picciotto” è di 14 anni... Il battesimo avviene in un posto isolato, alla presenza di almeno 5 picciotti. Il celebrante, dopo aver richiesto ed ottenuto la conferma dagli altri partecipanti, che devono stare tutti a braccia conserte, purifica il luogo: «Battezzo questo locale sacro, santo ed inviolabile, come l’hanno battezzato i nostri tre cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Se prima lo conoscevo come locale di transito e passaggio, d’ora in poi lo riconosco come locale santo, sacro ed inviolabile e se qualcuno lo riconoscerà lo pagherà con 5 zaccagnate sulla schiena come è prescritto per regola sociale».
– Cosa sono le “zaccagnate”?
– Coltellate, sono – rise il boss. – E molto male, fanno.
– Altri riti?
– Questa è la purificazione. L’esorcismo. Poi si passa al “battesimo” vero e proprio, che prevede alcune prove di coraggio, come il taglio del palmo della mano con un coltello. Poi si assegnano al nuovo 5 nomi, le credenziali per le eventuali verifiche.
– Perché il “cinque” si ripete sempre?
– Cinque è il numero magico delle ’ndrine.
«Come diceva Eco?» rimuginò l’inglese, «“...Cinque è prezioso perché cinque sono le dita di una mano e con Due mani hai quell’altro numero sacro che è Dieci, e per forza sono dieci persino i Comandamenti, altrimenti se fossero Dodici quando il prete dice uno, due, tre e mostra le dita, arrivato agli ultimi due deve farsi prestar la mano dal sacrestano”. Grande Eco». E quanta energia pulita.
– Ai gradi successivi – proseguì il Fumacatene – si arriva fornendo prove di coraggio. In tutti questi passaggi si osserva fedelmente la regola: il superiore conosce i gradi inferiori ma non quelli superiori. La nomina a “camorrista” avviene con un altro rituale: l’aspirante, alla presenza di tre ’ndranghetisti, porge la mano sinistra al capo dei camorristi, il quale incide sulla faccia del pollice due tagli a forma di croce. Poi, bruciata l’immagine di San Michele Arcangelo, la sua cenere viene strofinata sulla ferita. C’è un rito per ogni gerarchia.
– Mi dica qualcosa sull’organizzazione – disse Cymetral, scrivendo compunto finte lettere sul suo aggeggio digitale. L’intervista s’era veramente realizzata, cazzarola! Era salvo. Aveva gabbato il boss e ne stava pure ottenendo un servizio!
– La ’Ndrangheta non nasce come associazione unitaria: sono tante strutture indipendenti l’una dall’altra, divise per territorio in “cosche”, “fibbie” o “ndrine”. Alla fine del 1800 la ’Ndrangheta veniva allegoricamente rappresentata dall’Albero della Scienza.
– “Albero della scienza”? Mi vuole spiegare?
– Allora – rispose Sinurras Pace disegnando qualcosa con un indice nell’aria stantìa, – c’è il fusto, il capo società, la mente direttiva, con potere di vita e di morte sugli associati; il rifusto, vicecapo e amministratore; i rami, i “camorristi” esperti, divisi in “camorristi di sgarro” addetti alla riscossione del pizzo, “camorristi di sangue” addetti ai fatti violenti e “camorristi di seta” fini dicitori del gergo mafioso, in pratica i filosofi della famiglia. Poi ci sono i ramoscelli, le nuove reclute, i picciotti; i fiori, i giovani d’onore; le foglie, gli infami e i traditori destinati a cadere; il silenzio e l’omertà sono la linfa; e la tomba, che sta sotto l’albero a significare che la violazione del segreto comporta la morte. Ma queste sono le... le... vestigia, signor Dompson. Ora “la Santa” è divisa in Capo Santista, Sottocapo Santista alla destra, Mastro di Controllo alla sinistra, Scorta Armata Distaccata dietro le spalle. C’è il Consiglio Locale, con 9 santisti. E basta.
Dompson si affannò a prendere nota di tutto quel bendidìo, e nel frattempo, per non far raffreddare il boss, chiese ancora.
– Mi dica delle regole, dei codici di comportamento...
– Volete dire se c’è un codice scritto?
– Già, qualcosa di... codificato, appunto.
– Mah, non va bene tenere queste cose scritte... Ogni cosca ne ha uno, e ognuno cambia in qualche cosa... C’è quello di Seminara, il più antico, ma ce ne sono a San Luca, a Palmi, a Taurianova, a San Giorgio Morgeto, a Gioia Tauro, a Santa Eufemia in Aspromonte, a Siderno, e pure a Vibo, e ne girano tanti pure nelle carceri... Le diverse zone sono strutturate e regolate da disposizioni differenti.
– Ci saranno dei punti in comune, che si condividono?
L’inglese aveva maturato la convinzione che questa ’Ndrangheta fosse del tutto impostata come la
Massoneria: riti, codici, perfino figure allegoriche. La differenza era in qualche pistola in più.
– E certo che ci sono. La cosca si fonda innanzitutto su una famiglia di sangue; le entrate e le uscite della ’ndrina sono gestite da un contabile, che dopo aver raccolto il denaro proveniente dalle attività decide come impiegarlo, paga gli stipendi, provvede al pagamento dei legali e al mantenimento delle famiglie dei reclusi. Il fondo comune si chiama “bacinella”...
– Ogni tanto scoppiano pure guerre interne, no?
– Sì, quella caratteristica è la faida, un conflitto fra famiglie, feroce e distruttivo, che non risparmia donne e bambini.
– E la donna? Che ruolo ha, la donna, nella mafia?
– Nella ’Ndrangheta calabrese il ruolo della femmina è più attivo rispetto alla Mafia siciliana. La femmina può raggiungere il grado di “sorella di omertà”... Le femmine forniscono supporto logistico, curano i rapporti con i latitanti, sono il focolare dei valori e delle tradizioni della famiglia.
– Quando avvengono le riunioni?
– La ’ndrina si riunisce per le decisioni solo di sabato e dopo il tramonto. Gli affiliati si mettono in cerchio, a braccia conserte, in un posto purificato dal capobastone. Dopo la pulciata
– La “pulciata”? Scusi l’interruzione, ma certi termini io
– È il ritiro delle armi: lo fa il “maestro di giornata”. Dopo la pulciata, la seduta ha inizio.
– C’è anche... come dire?... un “tribunale” interno?
– Certo! Quanti non osservano le regole sociali vengono puniti, ci mancherebbe! La pena è vendetta. Le violazioni meno gravi vengono vendicate con coltellate alla schiena: le infligge il “puntaiuolo” al reo che sta in piedi. I reati gravi, per i quali è prevista la pena di morte, sono 21: la “diffidenza”, “l’abbandono delle riunioni”, il reato di “carognità”, quello di “connivenza con la polizia”...
– E le pene come vengono... eseguite?
– L’esecuzione della pena deve essere uno strumento simbolico, per dare l’esempio e scoraggiare il sorgere dell’infamia. L’impiccagione simboleggia l’impotenza, la vigliaccheria; la fucilata alle spalle è destinata ai traditori; l’asfissìa con pietre o terra è per le spie; la strage indica la voglia di sterminio senza pietà; la morte con sevizie indica una vendetta d’onore... Quando la morte violenta non basta, si infierisce sul cadavere: un latitante ucciso per aver disobbedito agli ordini di un boss viene dissepolto ed evirato, e gli si mettono in bocca i coglioni!
Dompson aveva cominciato a fare pellaccia e non raggelò, ma c’erano persino casi in cui la morte violenta “non bastava”...
– Mi può dire qualcosa sul linguaggio? Come parlano, gli ’ndranghetisti? Come si esprimono? Ci sono frasi particolari?
– Non c’è nessun linguaggio. Che intendete?
– Ci sono delle formule? Dei giuramenti?
– Ahh, i giuramenti, sì, ci sono i giuramenti... Il giuramento del veleno, per i nuovi: «A nome della Santa Corona e di fronte a questi fratelli di Santa, giuro di portare sempre con me questa boccetta di veleno, e se per disgrazia dovessi tradire questi nuovi fratelli di Santa, di avvelenarmi con le mie stesse mani» recitò quasi cantando.
Non era esattamente ciò che Dompson aveva chiesto, ma fece a meno di lamentarsene e prese appunti.
– Il giuramento per fedelizzare: «Giuro su questa arma e di fronte a questi nuovi fratelli di Santa, di rinnegare la società di sgarro e qualsiasi organizzazione, e fare parte alla Santa Corona e dividere sorte e vita con questi nuovi fratelli». Il giuramento degli affiliati, che mi piace assai, state a sentire: «A nome dei vecchi antenati conti di Russia e cavalieri di Spagna che hanno sofferto 29 anni di ferri e catene, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, vi impongo, se armature bianche o nere avete e non verranno consegnate, con le stesse sarete praticati...» e poi continua. È lunga, eh, è lunga.
Il reporter appuntò le formule in silenzio. Nessun’altra domanda gli veniva in mente, e fece finta di continuare a scrivere.
– L’abbiamo finita con il folklore, signor inglese? O dobbiamo continuare con le minchiate? Perché non mi avete chiesto niente sui soldi? Ma lo sapete qual è il giro d’affari della Santa? E ora fate attenzione a chiudere quella minchia di aggeggino elettronico che avete per le mani, perché queste sono le cose “che non dovete scrivere”...
Dompson chiuse la-minchia-del-Palm e lo fece sparire in un baleno.
– Il giro d’affari, il budget come dite voi – e pronunciò la parola letteralmente in italiano, con la “u” e la “g” dolce, – e solo per quanto riguarda appalti e imprese controllate, è di diecimila miliardi! – alla cifra, il suo zigomo destro si alzò verso l’occhio.
– Di lire?
– E certo, di lire. L’altro giorno, scherzando, ci siamo messi a fare un conto col mio amico commercialista, che è uno che legge sempre giornali, statistiche e numeri, e lui mi disse che il fatturato della Santa è un quinto del “prodotto interno lordo” della Calabria... Ma solo per appalti pubblici e imprese controllate.
– È una cifra incredibile, davvero – fece Cymetral, che non sapeva se tentare di cambiare discorso o fargli i complimenti.
– Ci abbiamo un intero quartiere a Bruxelles – disse parlando per la prima volta in prima persona. – In Germania ci abbiamo trecento pizzerie. In Belgio ci abbiamo un sacco di alberghi. A Roma ci abbiamo conventi e scuole, parcheggi e ristoranti. A Milano ci abbiamo tutto il mercato dell’ortofrutta. Qua nella regione ci abbiamo tutta la ristrutturazione dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. E il Ponte lo faremo noi! A Praga ci abbiamo più di mille palazzi. In Romania ci abbiamo le case da gioco. A San Pietroburgo ci abbiamo una banca.
«Pure una banca?» rimuginò l’inglese scuotendo il capo.
– E ci sono i cretini che pensano che con Tangentopoli è stata pulita l’Italia. Mister Dompson, avete capito qual è il trucco?
Cymetral sembrava un cagnolino di plastica di quelli che i camionisti tengono sul cruscotto, con la testa a molla.
– Bisogna scindere il luogo di produzione da quello d’impiego. Questo i siciliani non lo vogliono capire. Eppoi la ’Ndrangheta ha un’altra cosa in più, rispetto a Cosa Nostra: non ci sono “pentiti”. I calabresi hanno la linfa più forte. Tengono la bocca serrata. Per questo abbiamo ormai in pugno anche le rotte internazionali della ddroga. Per i narcos, la parola di un calabrese vale più di quella di un siciliano... Figuratevi che deve intervenire la ’Ndrangheta, quando i narcos si tengono qualche uomo della mafia siciliana per avere la garanzia dei pagamenti!
Davvero scandaloso.
– In Colombia siamo entrati in società con i cartelli – disse ancora il Fumacatene, con un pizzico di sciovinismo, – alcuni nostri emigrati controllano la rotta della coca Colombia-Australia. E a Sidney gli utili sono impiegati nel turismo.
«Occhèi, padrino, vai al dunque: che cosa vuoi da me?»
Sinurras Pace sembrò leggere nel pensiero del reporter, e si fermò, stringendo le labbra. Dompson giocò d’anticipo.
– Queste sono le cose che non devo scrivere, e infatti me le sono già dimenticate. Ma adesso mi dica cosa invece va scritto. E quali sono i “documenti” di cui mi ha parlato.
– Con calma.
Il boss continuò per un minuto intero a fissare Cymetral in silenzio, trapanandone le pupille con un’ostinata assenza di parole.
Sicuramente odiava essere preso in contropiede, e quella era la sua vendetta. Ma tutte le cose hanno un conto alla rovescia invisibile, e Dompson confidò con ritrovata serenità nel fatto che il vero fine del suo esser “lì in quel momento” non era ancora venuto fuori.
– È una cosa strana – fece improvvisamente il Fumacatene, piegando di lato la testa e osservando la debole luce della lampadina. Quindi si alzò e si sgranchì le gambe, girando intorno all’inglese. – Voi, un giornalista “importante”, che mi comparite nella casa di uno degli uomini che i
massoni di Washington mi hanno chiesto di prendere e spedire in America.
Dompson restò sorpreso. Gli era grato per l’aggettivo “importante”, ma di che cazzarola parlava, adesso, il fumatore di catene?
– Curioso è, non vi pare?
– Non la seguo, Sinurras – disse sinceramente Cymetral. Il boss lo esaminò per un attimo e lo battezzò in buona fede. Piegò le sopracciglia sulle orbite e continuò a camminare risparmiando i passi.
– Ventitré persone in tutta Europa, mi hanno chiesto di impacchettargli per gli Stati Uniti. Ventitré persone, una pure a Reggio Calabria. Ne abbiamo già trovati sette. Altri tre sono sotto terra. Voi ne sapete qualche cosa, di massoneria?
Il reporter non aveva voglia di addentrarsi nei temi già trattati da Bulvina. Però il suo intuito collegò immediatamente la Tanzor, gli “implantati”, Tonyard Lay Berrouli e il discorso del boss.
– Permetta una domanda, signor Pace: le dice niente il “
Priorato di Sion”?
– No: che è?, una loggia israeliana?
– Mah, è una storia di intrighi massonici, ma non ho ancora avuto modo di indagare. Però finito il servizio sulla Calabria, mi dedicherò a questo “Priorato”. È una vicenda che riguarda i
Templari.
–
Templari? Minchiate, allora, signor Dompson... Solo mitologia. Lasciate perdere, sentite a me. Dunque, non sapete niente, di come mai ai
massoni d’America gli interessano Berrouli più altre ventidue persone? Voi non c’entrate niente niente?
– Non c’entro niente – affermò Dompson tentando di convincere anche se stesso, – ma perché: lei pensa che Tony sia implicato in faccende massoniche? Mi giunge nuovo, un fatto del genere. Non mi sembra la persona.
– Bah, lasciamo perdere, e torniamo a noi.
Il Fumacatene riprese posto sulla propria sedia — e questa volta dal verso ortodosso, accomodandosi con le spalle sullo schienale.
«Non è la mafia, a volere Berrouli: interessa a qualcun altro. Devo riordinare le idee, i conti non mi quadrano di nuovo».
– Come faccio ad avere la certezza che verrà pubblicato un servizio con le cose che sto per dirvi, signor Dompson?
«Finalmente sei venuto al dunque, Chainsmoker».
– La certezza? Beh, la certezza al 100% non c’è – mise le mani avanti il giornalista, – ma molto dipende dall’interesse delle cose che mi dirà: e io sono sicuro che sono molto molto interessanti, e quindi può stare certo che l’Associated Press venderà questo servizio praticamente a tutte le testate più influenti del mondo.
– Non mi piace, quello che mi state dicendo... Non mi dite che vi ho dedicato tutto questo tempo inutilmente!
– Non si tiri indietro, adesso, Sinurras – tremò Cymetral. – Se, come penso, ciò che mi sta per dire è una bomba, vedrà la luce nel giro di un mese, forse anche meno.
Sinurras Pace sembrò sul punto di richiudersi nel minaccioso silenzio di prima, poi si passò una mano sulle labbra.
– Frate Maurizio! – urlò, fissando l’inglese negli occhi. Quindi si versò dell’altro vino e lo centellinò con volgare parsimonia. – Signor Dompson – disse piano, con un tono baritonale, – vi voglio raccontare una lunga storia, perciò riprendete quell’aggeggio.
Cymetral obbedì e riaccese il palmare.
– Ma non vi cacciate gli occhi, lì sopra? Volete carta e penna?
– No, grazie, se lo scrivo direttamente qui, ce l’ho già pronto in formato distribuibile sia via computer sia telematicamente.
– Voi sapete. Frate Maurizio! – urlò di nuovo, e sull’ultima sillaba la pesante porta in legno si stava già aprendo. Apparve un frate tarchiato e con la testa quasi quadrata.
– Prendete quei fogli sigillati che vi ho affidato – gli disse il Fumacatene con il fare del padrone al proprio cane. Il frate uscì.
Quel monastero non era deserto come sembrava.
– Mister Dompson, siete ferrato in Storia?
– In quella moderna abbastanza, signor Pace, perché?
– E la Storia d’Italia la conoscete?
– Beh, in linea di massima sì. Ma quale parte?
– Quella vera, intendo. Dal 1945 in poi.
– Oh, beh, sì, so parecchio, del Dopoguerra.
– Bene, bene – sorrise vagamente il vecchio boss. – Siete sicuro, di sapere parecchio?
– Avanti, Sinurras, non giochi con me... Parli.
– Ecco. Fine della Seconda Guerra Mondiale: gli USA sbarcano ad Anzio e liberano l’Italia. La liberano anche dalla Resistenza, che ha già battuto i Tedeschi in tutto il Nord. Gli Americani resuscitano all’uopo la Mafia — che era stata annichilita da Mussolini — con l’aiuto del boss Lucky Luciano. Ne avete sentito parlare, no?
– Sicuro.
– Quando gli Americani se ne vanno, si lasciano dietro “Gladio”, un corpo segreto pronto ad entrare in azione in caso di vittoria dei Comunisti alle elezioni. Gladio ha le sue basi di addestramento a Capo Marrargiu, il feudo sardo di Codrighi.
– Codrighi il politico?
– Certo, e chi, sennò? Fidelio Codrighi, Ministro dell’Interno, capo del governo, Presidente della Repubblica: ha fatto tutto lui. Comunque, a quel punto in Italia s’installa il sistema di potere “clientelare” della Democrazia Cattolica, che occupa ogni anfratto delle istituzioni politiche ed economiche. A inizio anni ’60, i primi timidi spostamenti del Paese a sinistra vengono contrastati dal ricatto di una possibilità di colpo di Stato — il “Piano Solo”, del ’64 —. La
Massoneria è già al lavoro, e la stessa tecnica intimidatrice per le istituzioni viene poi usata con il “golpe Borghese” — nel ’70, che vede un filo diretto fra golpisti, ’ndrangheta calabrese coi boss De Stefano e Nirta, Lucio Gotti, servizi segreti italiani e Casa Bianca di Nixon, oltre che Carabinieri e estrema destra — e con il “golpe bianco” di Edgardo Sogno — nel ’74.
La Storia che Cymetral aveva conosciuto cominciava a deviare.