Le mie classifiche
(OK Boomer!, de gustibus...)

I libri che salverei se la mia nave affondasse...

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Viaggio al termine della notte

Louis-Ferdinand Céline

Frase famosa: «New York, la città in piedi».
Le durezze dell’Africa coloniale, la New York della “folla solitaria”, le catene di montaggio della Ford a Detroit, la Parigi delle periferie più desolate dove lui faceva il medico dei poveri, a contatto con una miseria morale prima ancora che materiale. Questo libro riassume in sé la disperazione del XX Secolo: è in realtà un’opera potentemente comica, in cui lo spettacolo dell’abiezione scatena un riso liberatorio, un divertimento grottesco più forte dell’incubo.
Capolavoro assoluto e insuperabile.

libro

Taccuino di un vecchio sporcaccione

Charles Bukowski

Pagine graffiate dominate dall’esigenza di infrangere le regole di ogni buona convenienza — stilistica e non —. In nessuna delle altre sue opere ti trovi di fronte a un Bukowski più arrabbiato, più deciso a descrivere e a descriversi in totale nudità. La rabbia e il dolore di fronte allo spettacolo della vita si uniscono a un lucido e irresistibile umorismo che rende sopportabile il dolore del mondo.

libro

Moby Dick

Hermann Melville

Il più grande romanzo di sempre e il miglior libro che dia la misura dell’uomo e della sua incapacità di pilotare gli eventi. La balena bianca, il mostro che divora, è ciò che non si conosce (e che non si deve conoscere).
Questo monumento della letteratura non dovrebbe essere letto prima dei 30/35 anni.

libro

Jubiabá

Jorge Amado

Morta la zia con cui viveva, Baldo riceve in regalo un amuleto portafortuna dallo stregone Jubiabá, che conosce le antiche storie della schiavitù, guarisce i malati con gli esorcismi e sembra essere eterno. Di fortuna Baldo ne ha bisogno: fugge dalla casa di ricchi signori in cui faceva il ragazzo di fatica e si avventura in città, campando di espedienti. Pugile, gran seduttore, testa calda, Baldo va a lavorare nelle piantagioni di tabacco, uccide, fugge, e alla fine ritrova Jubiabá scoprendo le ragioni della solidarietà umana.
Il Brasile, terra onirica, forse mai narrato meglio.

libro

Grande sertão

João Guimarães Rosa

Di fronte a quest’opera, gli ultimi due secoli della letteratura occidentale sono solo disseccata cerebralità da deragliato illuminismo.
Un lungo monologo magico e consolatorio. Un universo chiuso, con le sue leggi e le sue opposizioni manichee: il bene e il male, il lato chiaro e il lato scuro, l’ordine e il disordine, la guerra e la pace, la legge e i fuorilegge, la siccità e l’abbondanza; ma dove spesso la contingenza e il punto di vista mescolano le tessere, così che l’interpretazione ne appare più che stravolta, inaccessibile.
Ancora Brasile, ancora il sogno che si fa narrazione.

libro

Finzioni

Jorge Luis Borges

Geniale e immortale, denso come gelatina. Ci si può fermare a ogni pagina e star lì a riflettere per ore.
L’opera annovera al suo interno racconti che sono diventati capisaldi letterari essenziali: la Biblioteca di Babele, Tlon, Uqbar e Orbis Tertius, Il giardino dei sentieri che si biforcano. C’è una realtà nascosta dentro la realtà stessa, una realtà che è celata dal tempo, dagli uomini e dal mondo; non è mai componibile e pensabile come un unica realtà oggettiva, bensì essa è rappresentata come una realtà che si ramifica in più realtà, soggette alle arbitrarie interpretazioni dell’uomo. Queste realtà vanno a comporre quel dedalo inestricabile di incomprensioni e rivalutazioni degli eventi che matura in una visione innovativa e soggettiva delle cose.
Son le idee a creare la realtà, o meglio le realtà: di pari passo allo sviluppo dell’idea dell’origine metafisica della realtà vi è lo sviluppo dell’idea di infinità molteplicità della realtà stessa. La realtà caratterizzata come “nostra” è solo una delle infinite possibilità che aleggiano nell’esistenza. Determinante a questo punto diviene un altro filone che si viene a creare nell’opera: il filone della verità. Tale filone interessa quasi tutti i racconti; in ognuno di essi c’è una rivelazione, un paradigma prima sconosciuto che ora diviene la componente più veritiera e importante della “realtà”.
Borges crea un linguaggio universale, capace di parlare al di là delle parole e dei simboli, di arrivare al lettore e di riuscire a instaurare con lui un dialogo — e tutto ciò nonostante uno smodato enciclopedismo. Tuttavia è un “male piacevole”: lo scrittore argentino, più che un autore, era qualcosa di molto vicino al divino, un dio pantocratore e architetto.

libro

Guerra e pace

Lev Tolstoj

Attraverso la grandiosa rappresentazione di vicende con lo sfondo storico degli eventi che avevano dominato i primi due decenni del XIX Secolo, dosata da un realismo che stabilisce un miracoloso equilibrio tra il mondo psicologico dei personaggi e quello esteriore dei fatti della natura, Tolstoj effettua la più profonda ricerca delle ragioni e dei fini della vita, una ricerca serena, lucida e soprattutto vera.

libro

Uno, nessuno e centomila

Luigi Pirandello

Tutto il disagio esistenziale dell’uomo del ’900 in un libro. La sua attualità è sconcertante: credo che riesca realmente a cambiare la percezione delle cose e delle persone. Nessuno può conoscersi, se pretende di costruirsi come “uno”.

libro

Ubik

Philip Kendrick Dick

Opera sbalorditiva, adatta anche a chi non ama il genere (peraltro, dire che si tratti di un libro di fantascienza è riduttivo). L’immaginazione può raggiungere vertici inaspettati.

libro

Sulla strada

Jack Kerouac

Impossibile restituire a parole quanto questo libro sia bello, particolare e coinvolgente. Dico solo che le ultime righe commuovono e che, una volta chiuso e riposto sullo scaffale, la voglia di “andare” è incontenibile…

libro

Cent’anni di solitudine

Gabriel García Márquez

Ah, Macondo, indimenticabile Macondo…! «Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio». Un incipit folgorante.
Cien años de soledad giungeva nelle librerie italiane il 15 dicembre 1968 grazie all’agguerrito editore Feltrinelli che in quegli anni portava in Italia la migliore narrativa sudamericana. Riversando in letteratura il realismo magico — genere letterario sancito, sistematizzato e glorificato proprio da quest’opera — Márquez aveva creato qualcosa di nuovo mescolando la narrazione storica con il surreale, aveva unito favola e mito, storia e mitologia. La grande novità della sua opera creò una rottura con i canoni classici di narrazione. Proprio a causa del suo essere totalmente fuori dagli schemi tradizionali il romanzo non era facile da comprendere né da definire: ma mentre i critici si incaponivano nel commentarlo (Calvino e Pasolini addirittura lo stroncarono), i lettori lo divoravano. L’avventura della lettura era il pregio indiscutibile del libro: questa caratteristica i lettori italiani la colsero subito.
Gli eventi fantastici sono collocati come se niente fosse nella trama e nella quotidianità dei personaggi, tanto da acquistare il crisma della plausibilità e il sigillo della verosimiglianza: all’interno dei meccanismi narrativi prende forma una logica spiazzante che ammette la coesistenza di elementi ordinari e quotidiani ed elementi fantastici, e il lettore finisce per trovare perfettamente normale questa miscela. Il tempo è però il vero filo conduttore che congiunge i lembi del romanzo: lo scrittore colombiano disegna ciclicità, cerchi concentrici, alterazioni temporali, deformazioni o, addirittura, assenza totale di temporalità.
Un romanzo che insegna ad amare visceralmente le proprie radici, a coltivare la memoria collettiva e ad apprezzare la propria storia. Come ogni classico, inoltre, non esaurisce mai la sua funzione comunicativa e regala in qualsiasi epoca una straordinaria lezione di humanitas, accettazione e arricchimento. Nell’epoca dei porti chiusi, lo zingaro Melquìades è lo sguardo della letteratura che anticipa e scruta il presente, e che smaschera la mancanza di umanità creata da una narrativa politica e mediatica tossica. È l’accezione più limpida e ancestrale del “popolare” in quanto legato alla purezza e al buono delle origini, non come vicinanza a gogne e bisogni di pancia rabbiosi. La letteratura ricorda che è pericoloso non sapere cosa sta succedendo nella nostra mente e ci aiuta a mantenere chiari valori che non dovrebbero mai essere messi in discussione per vivere in pace.

I vinili che proteggerei in un bunker se qualcuno premesse il bottone rosso...

disco

The Lamb lies down on Broadway
(1974)

Genesis

La vetta più alta raggiunta dalla musica popolare.
Solo i Genesis nel 1974 avevano tutti gli strumenti e il talento necessari per un’operazione che è rimasta unica nella storia del rock e dei concerti dal vivo, e per mettere in scena quella che, molti anni prima che il termine divenisse di uso comune, il gruppo stesso definì una rappresentazione “multimediale”, fatta di musica, teatro, poesia e immagini.
Irripetibile. Assoluto. Struggente. Da amare alla follia.

disco

Led Zeppelin II
(1969)

Led Zeppelin

Che cos’è un riff? È quella piccola frase di musica sempre in bilico tra l’insignificanza e la genialità. Il secondo disco dei Led Zeppelin apre con un riff, un semplicissimo riff composto da tre sole note, dietro le quali, però, si prepara un’intera nuova generazione. La chitarra volgare, metallica, oppressiva di Jimmy Page canta il cinismo, la disillusione che ben poco hanno a che fare con la appena tramontata stagione di Woodstock. Bellissimo, potente, sognante, graffiante, carico di energia e al contempo di poesia. Nessuno ha mai più suonato (e registrato in presa diretta) così, e non solo il blues, che qui è innovativo e sanguigno come in nessun altro disco.

disco

Who’s Next
(1971)

The Who

Gli Who sono una delle formazioni più inossidabili che il rock britannico abbia conosciuto e “Won’t Get Fooled Again” è il manifesto musicale di una generazione leggendaria (ma anche gli altri brani sono perle immortali: “Baba O’Riley”, “Behind Blue Eyes”, “Going Mobile”…). La loro impressionante energia primitiva si manifesta sotto forma di una carica sensualmente vorticosa verso un rock diversissimo da quello dell’epoca; la loro rabbia verso il sistema, verso il perbenismo imperante, offre una via di fuga dal grigiore quotidiano e un modo nuovo per elevare certi reconditi sogni adolescenziali. Potenza di musicisti e di momenti, che non ci sono più ma che mai moriranno: basterà posare un cd o un vinile sul piatto, e la magia si riprodurrà all’infinito.

disco

Ummagumma
(1969)

Pink Floyd

Onirico, lirico, selvaggio, libero.
Con questo disco i Pink Floyd, avvezzi per antonomasia alla sperimentazione, diventano leggendari e chiudono — con che chiusura! — la breve ma intensa stagione della Psichedelia. Metà dal vivo e metà in studio, Ummagumma non può essere descritto a parole: è un “trip” puro dove la creatività non ha veramente limiti. Una pietra miliare di tutta l’arte d’avanguardia.

disco

Twelve dreams of dr. Sardonicus
(1971)

Spirit

Il capolavoro più sottovalutato di tutti i tempi.
Musica psichedelica, blues permanente e ruggiti metallici si combinano con una vena melodica “arpeggiata” dalle chiare rimembranze folk. Influenzati dallo stile flower power di fine anni ’60, gli Spirit si distaccarono dal pacifismo utopistico e dall’approccio “acido” degli altri gruppi della mitica West Coast incidendo uno dei migliori lampi di genio che si ricordi. Ancora oggi i “dodici sogni” ti restano attaccati alla pelle come il sapore salmastro del mare dopo una notte in spiaggia.

disco

In the Court of the Crimson King
(1969)

King Crimson

Sembra quasi di sentirlo, l’urlo dell’uomo schizoide, guardando l’immagine trasfigurata della copertina di questo capolavoro assoluto del progressive rock britannico, la prima fatica dei King Crimson, un’opera che rimarrà inevitabilmente un microcosmo a sé stante, nonostante gli impeccabili lavori realizzati in seguito dalla band di Robert Fripp. Atmosfere surreali e incantate, lunghe suite romantiche e complesse architetture sonore segnano un album che, a distanza di tanti anni, riesce ancora ad apparire moderno.

disco

Gone to Earth
(1986)

David Sylvian & Robert Fripp

Sylvian con la sua voce d’angelo a illuminare atmosfere jazz, ambient e minimali, Fripp con la sua incredibile chitarra effettata a tessere paesaggi sonori che distillano emozioni in fulgide e lontane nebulose… Questo non è un disco: è un libro di poesie scritto direttamente dal pianeta Terra e dedicato al resto della galassia. Alla fine dell’ascolto ti senti “pulito dentro” come dopo una settimana in un centro benessere.

disco

Electric Ladyland
(1969)

Jimi Hendrix

L’apogeo del “blues totale” di Hendrix, il rivoluzionario della chitarra elettrica, e un disco centrale nella storia della cultura popolare. Il blues costringe la psichedelia al suo diapason, il magma musicale esce denso e nello stesso tempo leggero e vaporoso, dilatato. Esempi lampanti di questi due diversi “stati fisici” sono le concrete ed entusiasmanti “Crosstown traffic” e “Voodoo child”, mentre “Have you ever been” e “1983...” testimoniano una rarefazione sorprendente, figlia anche di una nuova dimensione acustico-elettronica e della rivalutazione di alcuni strumenti a fiato. Da ricordare inoltre la versione di “All along the watchtower”, cavallo di battaglia di Bob Dylan, e la stupenda “Gypsy eyes”, dedicata alla madre del geniale meticcio. Genuflettersi davanti al capolavoro, prego.

disco

Abbey Road
(1969)

Beatles

Giù il cappello davanti ai campioni del pop e al loro disco più memorabile. Nessuno ha mai composto (né mai forse comporrà) come la coppia Lennon-McCartney: “Come Together”, “Something”, “Oh! Darling”, “I Want You (she’s So Heavy)”, “Here Comes The Sun”, “Because”, “She Came In Through The Bathroom Window”, “Carry That Weight”... In risposta a chi non riusciva a vedere più nulla di innovativo nella musica dei Beatles, “Abbey Road” presenta(va) elementi rivoluzionari: per esempio, il lato B è composto quasi interamente da un medley, ossia da una serie di canzoni tutte collegate una all’altra come in un’unica traccia. Che piacere, per le orecchie...

disco

Close to the Edge
(1972)

Yes

Album difficile ma che, ascolto dopo ascolto, si rivela immenso e perfino orecchiabile: uno dei capisaldi assoluti della musica di ogni tempo. La lunghissima suite che dà il titolo al disco — 18 minuti di arte al più alto livello, dove la perizia tecnica si fonde con l’inventiva — e la meravigliosa “And you and I” sono due delle “mete definitive” del progressive-rock, in un crescendo emotivo di perizia chitarristica e mellotron siderali capaci di avvolgere in un’atmosmera mistica e liberatoria. Indimenticabile il falsetto da usignolo di Anderson; inoltre i suoi testi sognanti e immaginifici si sposano perfettamente con le rappresentazioni di ambienti metafisici creati dal pittore Roger Dean nelle copertine.

disco

The Doors (1st)
(1967)

The Doors

Jim Morrison, il più intrigante mito del rock. Mentre a San Francisco si celebrano i fasti del “flower power” tra nuvole di fumo e sesso libero, nelle cantine di Los Angeles si propaga sotterranea la leggenda di questo quartetto che sul palco riesce a infiammare l’audience grazie alle performance insolenti del suo carismatico frontman. I Doors si muovono su coordinate artistiche del tutto atipiche per il sound dell’epoca: il loro obiettivo è espandere il rock oltre i suoi confini, oltre quelle “porte della percezione” descritte dal poeta visionario William Blake — da qui la scelta del nome da parte del “Re Lucertola” Morrison e della sua corte —. Fu uno dei debutti più folgoranti della storia. Visionario, sensuale, oscuro, selvaggio, “il primo dei Doors” è un saggio del talento poetico di Morrison ma anche della straordinaria abilità degli altri tre musicisti. Insostenibilmente bello ancora oggi.

disco

Tarkus
(1972)

Emerson, Lake & Palmer

Questo disco vale per quella che era la prima facciata del vinile: la title-track, una suite di oltre 22 minuti — durata stratosferica per i giorni nostri, ma che spettacolo! —. Il resto è purtroppo robaccia, ma poco importa. Figlio degli anni che furono, il sound degli ELP è una miscela di rock, jazz, fusion e psichedelia che trasmigra quasi completamente nella musica classica (sì, classica!). Come tutte le cose raffinate, Tarkus non è facile da comprendere al primo impatto, a causa del suo ritmo sincopato e incalzante. Ma con il tempo sa diventare un piacere che non stanca mai. Un classico come non se ne fanno più.

disco

Still Life (Talking)
(1988)

Pat Metheny Group

Immagini evocative di orizzonti sconfinati e notti in totale solitudine a riflettere su sé stessi e su cosa sia la vita, malinconia e allegria al tempo stesso… Un perfetto connubio che unisce le due americhe sul terreno neutrale del jazz, con un ragazzotto del Midwest a fondere la propria anima con quella della musica brasiliana per tirar fuori sonorità ibride e magiche al tempo stesso. Un amalgama omogeneo, pregno dell’universo sonoro dei grandi musicisti che hanno contribuito a crearlo (come l’inseparabile Lyle Mays). Questo disco è non solo una pietra miliare nella discografia del meraviglioso chitarrista Pat, ma anche un vero e proprio punto di svolta di tutto il genere “Fusion”, gran parte del quale proprio in quell’epoca confluiva nella cosiddetta “New Age”.

disco

Pink Moon
(1973)

Nick Drake

Un giovanotto malinconico e la sua chitarra acustica suonata con la tecnica del finger-picking. Nessun altro strumento. L’autore, 23enne di leggendaria timidezza, ha una bellezza d’altri tempi, da ottocentesco nobiluomo di campagna. Non parla con nessuno, ha un’aria assente, imbronciata. Fissa qualcosa all’orizzonte: un particolare, un suono trasparente che aleggia tra le nuvole. Soltanto una breve intervista in tutta la carriera, pochissimi e tribolati concerti finiti spesso con una mezza fuga dal palco. Questo era Nick Drake, il poeta più struggente del pop. Con i suoi 30 minuti scarsi, “Pink Moon” è uno degli album più intensi del folk acustico britannico e, allo stesso tempo, uno dei migliori nella storia dei “cantautori”. Tanto breve e spoglio quanto denso di significati. Per concepirlo, Nick combatté un’ultima volta contro i demoni della depressione che da anni lo attanagliavano, riuscendo per una volta a domarli. “Pink Moon” fu l’ultima sua luce prima del suicidio. Bellissimo e struggente.

disco

Arbeit macht frei
(1973)

Area

Monumento del “progressive” italiano che fu, con influenze jazz, etniche e psichedeliche. Area: ossia l’impeto strumentale e la contaminazione sul piano musicale (con forte attrazione per il mondo mediterraneo/mediorientale), e l’impegno umano e politico sul piano ideologico. Musicalmente “Arbeit Macht Frei” offre eccezionali spunti che vanno dall’improvvisazione free jazz al rock duro, mentre dalla musica etnica vengono ripresi i tempi dispari e i modi “orientaleggianti”. In questo contesto il disco unisce avanguardia e tradizione popolare regalando situazioni estremamente godibili e trascinanti quali l’immortale “Luglio, agosto, settembre (nero)”, con uno strepitoso tema strumentale. A contribuire alla riconoscibilità artistica degli Area è Demetrio Stratos, la “voce-strumento” più interessante e tecnicamente progredita del panorama italiano del Novecento, con un’estensione vocale invidiabile e un’emissione altrettanto potente: qui il suo studio sulla voce non è che agli inizi, ma già non ha né paragoni né precedenti.

disco

Selling England by the Pound
(1973)

Genesis

Ultimo, ma solo per far posto anche ad altri, prima di ripetermi con lo stesso gruppo. Perché nessun disco è forse mai stato “perfetto” come questo: ogni canzone, un classico (“Dancing With The Moonlit Knight”, “I Know What I Like”, “Firth Or Fifth”, “Battle Of Epping Forest”, “After The Ordeal”, “Cinema Show” sono tutte qua dentro).
La musica dei Genesis del “periodo d’oro” è caratterizzata da una impalcatura sonora complessa e articolata: come in un grande puzzle, ogni strumento innesca un’azione e reazione di un altro strumento, generando un intersecarsi di suoni e melodie. In questo grande mosaico tutto è concepito ad arte per vivere di vita propria. Si possono ascoltare le tastiere fare da filo conduttore al brano, e in sottofondo tre secondi di ricamo chitarristico; ma quei tre secondi sono talmente fondamentali che se non esistessero tutto il brano ne risentirebbe e l’intera architettura sonora crollerebbe. Musica mai uguale a sé stessa, un trionfo di idee fervide che immergono l’ascoltatore in epoche remote, in un mondo popolato da draghi e fate, castelli e giardini verdissimi, eppure tutte contemporanee — ogni brano è una presa in giro (con fine humour inglese) di situazioni dei nostri giorni.

I film che stiverei sull’astronave che mi dovrebbe portare in salvo dalla supernova…

film

2001, Odissea nello Spazio
(1968)

Stanley Kubrick

Rimasi stregato, straniato dal primo momento (avevo 14 anni, ma da allora l’ho rivisto almeno una ventina di volte, a tutte le età, e mi tocca nel profondo ogni volta).
È un’esperienza visiva. È un’esperienza filosofica.
È un trip, nell’infinito dentro te stesso e nell’infinito là fuori. È slegato dal tempo (peraltro dopo oltre mezzo secolo sembra girato ieri). Contiene un numero esorbitante di significati. E ti puoi divertire a fornire decine di interpretazioni. Si può tentare di decifrarlo ricorrendo a teologia, antropologia, alchimia, miti, psicanalisi, numerologia, simbolismo, scienza, esoterismo — e ovviamente filosofia —. Sposa magistralmente molte arti diverse (cinema, fotografia, pittura, letteratura, musica).

A distanza di tanti anni dalla data fatidica citata nel titolo, per quanti progressi l’uomo abbia compiuto in ambito spaziale da quel lontano 1968, anno in cui fu realizzato questo celeberrimo film, è curioso che nulla o quasi si sia verificato nella realtà di quanto descritto nel corso della storia. Mi riferisco ovviamente alla parte tecnologica e scientifica — anche se Stanley Kubrick, a detta degli stessi esperti del settore aerospaziale, da perfezionista ai limiti del maniacale, descrive uno scenario assolutamente plausibile anche nei dettagli —: ciò che il film illustra a livello di stazioni orbitanti e viaggi interplanetari che avrebbero dovuto popolare lo Spazio nel 2001, è stato infatti nel frattempo enormemente ridimensionato, anche per via dei costi esorbitanti che quelle spedizioni comportano, divenute in pratica insostenibili. Ma il registro dell’autore non era la profezia, ovviamente. «Ognuno è libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico del film, io ho tentato di rappresentare un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio». Nelle stesse parole del regista è registrata la sfida indirizzata a ogni spettatore: il quale, secondo sensibilità e cultura, può appunto interpretarla diversamente e liberamente: la stessa reazione che ognuno può provare ponendosi di fronte a un dipinto dal grande valore espressivo ma che è, proprio per questo, anche soggettivamente interpretabile.
Un film inarrivabile. Eterno.

film

Apocalypse Now
(1979)

Francis Ford Coppola

Una delle opere più imponenti che il cinema abbia mai prodotto, da tutti i punti di vista. Lo spettacolo è grandioso, compatto, di inaudito vigore. I personaggi sono incisivi e memorabili. «L’orrore... l’orrore...». L’allucinata, lisergica “opera assoluta” di Coppola (liberamente tratta da ‘Cuore di tenebra’ di Joseph Conrad), è incentrata su un viaggio che si dipana nel Vietnam bellico, ma che potrebbe riguardare un qualsiasi altro territorio geografico e mentale. La ricerca da parte del capitano Willard del colonnello Kurtz, preda di un demente e sanguinario sogno di potere nei recessi di una giungla ostile e pre-umana, termina con un nuovo inizio; e il nuovo Kurtz — ciò che Willard è diventato — si trasforma a sua volta nel possibile oggetto di una ennesima ricerca, altrettanto caotica e disperata di quella che si è appena conclusa sullo schermo. Ed è questo finale aperto che rende ancora più inquietante la cupa parabola autodistruttiva di questo immenso film.

film

A Qualcuno piace Caldo (Some like it hot)
(1959)

Billy Wilder

La commedia americana per eccellenza, che mantiene tutt’oggi la sua grande carica ironica riuscendo a divertire con gusto anche le nuove generazioni. Un’opera fuori dal tempo, punto di riferimento per tutti i film dello stesso genere, ha il suo segreto in una serie di elementi tanto banali quanto difficili da ottenere contemporaneamente. In primo luogo la storia, abilmente costruita e che, sfruttando la figura dell’uomo camuffato da donna, per sua natura altamente spassosa, dà vita a una serie di equivoci che riempiono l’intreccio di battute e situazioni altamente comiche. Secondo elemento è il cast, con la coppia Tony Curtis/Jack Lemmon tra le meglio assortite di sempre e dotata di tempi comici quasi perfetti, e con la mitica Marilyn Monroe che delizia gli occhi e le orecchie. Ultimo elemento è il ritmo, sempre brillante e gestito da una regia in grande spolvero (mi viene in mente l’efficace ed esilarante montaggio incrociato fra Lemmon che balla il tango e Curtis in barca con la Monroe).

film

Blade Runner
(1982)

Ridley Scott

«Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare... navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire...»
Dopo la visione di questo monumentale capolavoro rimane una profonda angoscia dovuta al futuro prospettato (spero che gli scienziati che hanno votato il film come quello più realistico e verosimile per la descrizione del nostro futuro si sbaglino), e da contraltare l’ultimo scorcio di luce che si apre durante la morte del replicante, che suggella uno dei momenti cinematografici più famosi di sempre.
Non è un caso che sia tratto da Philip Dick.

film

Il Dormiglione
(1973)

Woody Allen

Il genio comico allo stato puro. «Dicono che la sua opera è troppo narcisista», «Narciso non è esattamente la figura mitica greca a cui mi ispiro», «E a quale si ispira, allora?», «Beh, ehm, Zeus!». Risate assicurate, ma c’è spazio anche per la riflessione — sembra che nel 1973 il regista già sapesse quale schifo di società avremmo avuto nel 2000: valori prossimi allo zero, ambiente a dir poco corrotto... —. La parodia della fantascienza è un genere difficilissimo, e Allen vi riesce soltanto in parte; ma la forza comica di molte trovate, l’irriverenza polemica (contro il potere, la tecnologia, i mass media, l’ecologismo) e l’intelligenza sono fuori discussione. Memorabili le scene degli ortaggi cresciuti a misura d’uomo, del naso-leader-del-mondo e del sesso nell’orgasmatic.

film

Blow up
(1966)

Michelangelo Antonioni

Imperdibile capolavoro. Un Antonioni in grandissima forma, una colonna sonora (Herbie Hancock, Yardbirds, Tomorrow) da acquistare e godere anche a parte, un David Hemmings che rimane nel cuore, un mega-protagonista corale — l’indimenticata ‘swinging London’ —. Gli Yardbirds con Jimmy Page e Jeff Beck insieme, con il secondo che distrugge la chitarra… La carica metaforica e metafisica della pellicola, i suoi simboli profondi, oggi incantano ancora; un film di grande fascino, e il suo discorso sulla relatività del concetto di realtà, sull’insensatezza dei nostri tempi, sul consumismo che ci… consuma, sulle tragedie che non riusciamo a vedere anche se sono sotto i nostri occhi, non avrebbe potuto esser narrato meglio. Inoltre una buona occasione per scoprire un autore grande e il suo sguardo, un po’ complice e un po’ critico, sull’universo dei giovani (di allora, ma i giovani sono uguali in ogni tempo, quindi è uno sguardo anche sull’oggi), sulle mode, sull’erotismo che si andava imponendo nella civiltà moderna.
La scena dell’amplesso tra il fotografo e Veruschka, a colpi di macchina fotografica, è ancora oggi di grande effetto. Ma la scena più “alta”, con un valore che coinvolge sociologia, antropologia e semiotica, è quella già citata della chitarra di Jeff Beck. Gli spettatori sono paralizzati come manichini, ascoltano la musica senza muovere un muscolo: si scatenano solo quando il chitarrista getta il suo strumento tra la folla dopo averlo distrutto. In un mondo moderno che sempre più aumenta e semplifica le possibilità di interazione sociale, l’individuo si fa misteriosamente schivo e la soggettività emerge per contrasto. La sola possibilità di espressione individuale sfocia nella violenza, nella ricerca feticistica del manico della chitarra frantumata dal musicista; tuttavia questo feticcio conquistato con furia, una volta tolto dal suo contesto (il concerto, il mito), abbandonato con nonchalance in un vicolo poco fuori dal locale, viene raccolto, guardato e subito gettato via senza interesse da un passante: l’astrazione dal contesto di riferimento genera una completa perdita del significato delle cose, vacue prede di una semplice e passeggera affezione simbolica.

film

L’infernale Quinlan (Touch of Evil)
(1958)

Orson Welles

Basta l’incomparabile piano-sequenza iniziale con lo scoppio della bomba che non arriva mai e che tiene sul filo della tensione come nessun’altra scena mai girata, per amare questa eccellenza assoluta del cinema. Una maestria inarrivabile nella regia, recitazioni impeccabili, stracarico di caratterizzazioni e arricchito dalla presenza di star anche in ruoli minori, qui al loro meglio. Orson Welles era un dio della pellicola.

film

Quarto Potere (Citizen Kane)
(1941)

Orson Welles

Dire che questo film sia un capolavoro è cosa banale. Certamente occorre contestualizzarlo negli anni in cui uscì, precisamente nel 1941, per apprezzarne la grande qualità che lo ha reso una delle opere più apprezzate di sempre. La pellicola dell’allora enfant prodige Welles, solo 26 anni di età e alle spalle una grande popolarità arrivata dalla radio, è profondamente innovativa sia a livello di scrittura che a livello di linguaggio cinematografico. Fa impressione la storia di Kane, personaggio meraviglioso e complesso ispirato al grande magnate della carta stampata Randolph Hearst (il quale non apprezzò il film e lo ostacolò in tutti i modi: addirittura voleva comprarlo solo per bruciarlo), la cui vita è raccontata con una grande struttura a flashback affascinante e dal finale illuminante e profondo. La regia e il montaggio, nonostante la loro anzianità, fanno ancora invidia a molti film moderni, e aprirono le porte al cosiddetto “cinema del plan” — della profondità di campo —. Attualissime anche le varie stoccate alla società americana, osservazioni che non hanno perso forza e significato col tempo. Caposaldo della cinematografia, la cui migliore descrizione fu data da Truffaut nel 1978: «film totale: psicologico, sociale, poetico, drammatico, comico, barocco».

film

I Quattrocento Colpi
(1959)

François Truffaut

Manifesto della Nouvelle Vague francese, il primo film di Truffaut è un inno alla libertà dell’infanzia, in parte autobiografico, che disegna e descrive le vicende di un bambino nel quartiere in cui il regista è nato. La forma filmica è immediata, viva, realista, strizzando l’occhio a Rossellini, e rappresenta i volti e le vite dei piccoli uomini nelle strade parigine, nelle sue sfaccettature più intime, nei discorsi fra amici che condividono gli stessi luoghi. La poesia dei primi anni dell’esistenza risulta apparentemente rotta dalla coercizione del riformatorio, insieme di rigide regole che dovrebbero indicare la retta via; è però nell’ultima magica sequenza, mostrata secondo dopo secondo nel più classico stile della Nouvelle Vague, in quella corsa di Doinel verso il mare, che i capelli possono finalmente seguire il vento, e lo sguardo finalmente perdersi senza paura verso gli anni dell’età adulta.
Ti resta attaccato all’anima.

film

Kramer contro Kramer
(1979)

Robert Benton

Dal romanzo di Avery Corman: moglie insoddisfatta lascia il marito e il figlioletto. Il babbo si trasforma in mamma e conquista l’affetto del bambino, ma diciotto mesi dopo lei ritorna a reclamare la custodia. Finiscono in tribunale, a colpi bassi. 5 premi Oscar, enorme successo di pubblico, strappalacrime e spezzacuori e tutto raccontato dalla parte di lui. Mai amato dai critici, che lo ritengono un film ruffiano, quest’opera eccelle per la semplicità della vicenda, per la gradualità del suo sviluppo, per il suo perfetto equilibrio, per l’aderenza alle realtà umane e sociali, per la naturalezza delle interpretazioni. Ma soprattutto per i due giganti della recitazione, Hoffman e la Streep, mai così in alto.

film

Umberto D
(1952)

Vittorio De Sica

Toccante come pochi. Opera in cui tutto è “unico” — nel senso di solo questo e nient’altro. Il dramma di un uomo che ha lavorato tutta una vita onestamente e ora, solo, si trova ad avere problemi economici, è vissuto con un’estrema dignità da Umberto, ignorato dagli altri. Unico amico e compagno è Flick, un bastardino, il solo essere vivente che nutre un po’ d’amore verso Umberto e che alla fine lo salva dalla morte — e con cui si incammina verso un futuro sconosciuto. Unici gesti e parole di conforto sono quelle di Maria. Con lei l’anziano ha quasi una forma di affetto, riservato. Sembra un vecchio padre o un nonno. Unico piccolo gesto di aiuto quello di un vicino di letto in ospedale. Il resto dell’umanità vive la sua vita cinicamente e non degna Umberto quasi nemmeno di un gesto di pietà. Anche quando gli sguardi si posano su di lui, subito si ritraggono in preda a un egoismo che cela paura. I gesti d’amore non sono contemplati nella società, tutta reclinata su sé stessa, sui propri interessi immediati. Le parole che i personaggi si scambiano sono drammaticamente significative e distanti.
La più bella pellicola sulla solitudine mai girata.

film

Qualcuno volò sul Nido del Cuculo
(1974)

Milos Forman

Il titolo è altamente simbolico, ma la traduzione italiana limita la comprensione effettiva del significato che esso racchiude. Letteralmente riprende il verso di una filastrocca: «One flew east, one flew west, one flew over the cuckoo’s nest». Il termine inglese “cuckoo” indica propriamente il cuculo, ma in senso traslato significa anche “pazzo”. Il cuculo non ha un proprio nido ed è solito deporre le uova in nidi diversi per far crescere i propri piccoli. Di conseguenza questi ultimi sono ospiti che vengono nutriti da uccelli che non sono i loro genitori. Nel film, il nido è rappresentato dal manicomio i cui ospiti sono degli esseri umani tenuti sotto una ferrea disciplina in apparenza terapeutica ma che in realtà nasconde un profondo intento sadico. Sia il regista sia Jack Nicholson sono così bravi da risultare imbarazzanti. Da vedere e rivedere per sempre, con alto godimento.

film

La lunga Estate calda
(1958)

Martin Ritt

Paul Newman giovane disoccupato, ingiustamente noto come piromane (lo era il padre), è assunto in una ricca azienda agricola del Mississippi. Preso in simpatia dal padrone (Orson Welles), suscita le gelosie di suo figlio (Tony Franciosa). “La carne” di William Faulkner è stata ammorbidita, addolcita, premasticata dagli sceneggiatori della Fox, ma ne è uscito, comunque, un perfetto film sul sesso e sul denaro, ben congegnato, divertente, recitato benissimo da tutti.

film

Un Volto nella Folla
(1957)

Elia Kazan

Con l’aiuto di una giornalista spregiudicata Lonesome Rhodes, cantante girovago dell’Arkansas, diventa un folk singer di successo, un idolo delle folle televisive, un demagogo megalomane. Sarà la giornalista a determinare la sua fine. Scritto, come “Fronte del porto” dello stesso regista, da Budd Schulberg, è uno dei più lucidi e critici film americani sull’industria culturale e i mass media, sostenuto da un ritmo sincopato e da un’energia forsennata. «Il più americano dei miei film...», lo definì Kazan: troppo in anticipo sui tempi per avere successo. La difficile commistione di satira e tragedia è quasi perfetta. Un film che amo profondamente, e di un regista che adoro.

film

Pulp Fiction
(1994)

Quentin Tarantino

Nessun aggettivo è adatto a definirlo, bisogna tirar fuori un neologismo («strapazzesco» potrebbe andar bene). 4 storie di violenza s’intersecano in una struttura apparentemente circolare che va avanti e indietro nel tempo. Ispirato a quella narrativa popolare di ambiente criminale che, dagli anni ’30 e ’40, era pubblicata dai “pulp magazines”, la pellicola procede sul filo di un’irridente ironia, di un efferato umorismo nero, di una dialettica tra buffonesco e tragico (tra fun e funesto) che mettono azioni, gesti e personaggi come tra parentesi, in corsivo, anche quando, come nel torvo episodio della sodomizzazione, questo film divertente e caustico dai dialoghi irresistibili penetra nell’abominio del male. Indimenticabili praticamente tutti, nel cast: John Travolta, Uma Thurman, Samuel Jackson, Harvey Keitel, Tim Roth, il boss nero Ving Rhames (che la prende in quel posto) e perfino un solitamente pessimo attore come Bruce Willis.

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La Parola ai Giurati (12 angry men)
(1957)

Sidney Lumet

Dodici giurati devono giudicare un ragazzo accusato di parricidio. Uno solo di loro ha qualche dubbio sulla condanna dell’imputato e, con una finezza psicologica pari alla sagacia dialettica, riesce a convincere gli altri a votare per la non colpevolezza. Tratto da un teledramma, è il 1°, eccellente film di S. Lumet, fino a quel momento attivo solo in TV. Serrato, intelligente, acuto, senza cadute né passaggi artificiosi, sebbene l’azione si svolga interamente a porte chiuse. Oltre che recitato — superbamente — fu anche prodotto da Henry Fonda, e contribuì ad aprire le porte di Hollywood a una nuova generazione di sceneggiatori e registi televisivi. Sorprendentemente bello.

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Il Padrino, parte II
(1974)

Francis Ford Coppola

Nel 1901 Vito Andolini, ragazzetto siciliano, raggiunge gli Stati Uniti, per una svista prende il nome di Vito Corleone, si fa strada nella Little Italy, crea un impero del crimine (case da gioco, prostituzione) che trasmette al figlio Michael. Nel 1958 Michael è costretto a meditare sul futuro della famiglia: il fratello lo tradisce, alcuni rami dell’organizzazione tentano di rendersi autonomi, il Senato lo cita, Cuba passa dal governo di Batista a quello di Fidel Castro, la moglie si procura un aborto. Questo “parte seconda” è qualcosa di diverso da un seguito: racconta non solo quello che viene dopo il 1° ma anche quello che lo precede. Il n. 1 s’incorpora nel n. 2, e ne viene continuamente evocato. Forte del successo della prima pellicola, Coppola ebbe mano libera nel mettere a fuoco le ambizioni di trasformare un gangster-film in una tragedia moderna, una grande metafora sull’America dopo la fine del “sogno”. Ancor più che il 1°, si presta a ogni sorta di lettura: psicanalitica, politica, sociologica, estetica. Ivan il Terribile raccontato alla maniera di Scarface. Indimenticabili la fotografia di Gordon Willis e le musiche di Nino Rota. Ottenne 6 premi Oscar (film, regia, sceneggiatura, R. De Niro, scenografie, musica), ma gli incassi calarono: 30 milioni di dollari sul mercato americano contro gli 86 del 1° Padrino. A dimostrazione che le masse non comprendono il puro genio!

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L’Uomo del Banco dei Pegni
(1965)

Sidney Lumet

Nevrosi dell’ebreo Nazerman, unico superstite di una famiglia polacca sterminata nei lager nazisti, che fa l’usuraio nel quartiere di Harlem a New York per conto di uno sfruttatore di prostitute. Compresso tra un’intensa ricerca psicologica e il groviglio delle tematiche sull’ebraismo, il film ha momenti altissimi nella descrizione dal vero del ghetto nero e nella incisiva interpretazione di Rod Steiger, che non ha mai più raggiunto simili vette (e non solo lui). Fotografia in bianconero del grande Boris Kaufman e musiche di Quincy Jones. Una pellicola misconosciuta che non ha mai avuto il tributo che meritava!

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Taxi Driver
(1975)

Martin Scorsese

Psicodramma intimistico, spaccato del lato oscuro degli anni ’70, vivido ritratto della decadenza americana post-Vietnam: Scorsese filtra Schrader, soggettista e sceneggiatore, e il risultato è un pilastro della storia del cinema moderno. New York: Travis Bickle, veterano del Vietnam in congedo, soffre d’insonnia e decide di impegnare le proprie notti facendo il tassista. Completamente disadattato ma idealista alla ricerca di uno scopo, l’uomo si invaghirà di una ragazza e le chiederà di uscire. Quando le cose tra i due andranno storte, Travis, definitivamente disilluso riguardo la società, si chiuderà in se stesso. Comincerà così per il tassista una claustrofobica discesa nel baratro della solitudine, in bilico sui margini della sanità mentale.
Scorsese accompagna lucide ricostruzioni contestuali a ritmi ipnotici, dando vita ad alchimie capaci di avvolgere lo spettatore. Il senso di vuoto, di distanza, che permea la vita del protagonista, è trasmesso con efficacia da ambienti e situazioni presentate; ogni inquadratura è coerente a creare un tutt’uno coeso, uniforme nel dare spessore vivo alle atmosfere. La solitudine è ovunque nella jungla urbana, ma per Travis diventerà una vera e propria vocazione, elemento scatenante di un disturbo mentale latente; lo straniamento del protagonista arriverà a essere totale e lo stato di primordiale libertà, così acquisito, libererà le pulsioni represse in una esplosione di violenza. Il genio è nel paradosso: dopo tortuose deviazioni, i binari della psiche porteranno a esiti anomali ma riconducibili a un estremo ideale di giustizia, impossibile da raggiungere per qualsiasi individuo “normale”. Geniale! Le confuse luci di New York filtrate da un parabrezza bagnato, fumose atmosfere dai sapori jazz: su inquietanti interrogativi, apertura e chiusura si ricongiungono, a serrare il cerchio tracciato da Scorsese. Quest’opera, presente come poche nella memoria collettiva grazie anche a un grandissimo De Niro, è un inossidabile monumento al cinema.

film

The Manchurian Candidate
(tradotto in Italia con l’assurdo “Va’ e uccidi”)
(1962)

John Frankenheimer

Subìto il lavaggio del cervello da parte dei Comunisti, un sergente americano rientra dalla Corea trasformato in sicario telecomandato per un attentato politico che potrebbe sovvertire la situazione degli USA. Snobbato ai suoi tempi da 9 critici su 10, attaccato da destra e da sinistra, fu rivalutato solo più tardi (e non soltanto perché anticipava la fine tragica dei Kennedy) e persino ridistribuito (nel 1987). Per l’allucinata costruzione e gli effetti barocchi, a mezza strada tra Hitchcock e Welles, questo thriller fantapolitico riesce anche divertente al suo livello di corrosiva satira politica. Squadra di attori di prim’ordine. Una pellicola originale come poche.

film

Il Settimo Sigillo
(1956)

Ingmar Bergman

Un’allegoria scandinava sull’uomo in cerca di Dio, con la morte come unica certezza. Come negli spettacoli medievali, il tragico convive con il comico. Ispirato a “Pittura su legno”, atto unico dello stesso Bergman, fu girato a basso costo in 35 giorni interamente in studio. Non privo di pecche né di negligenze, non zoppica da nessuna parte ed elabora il suo tema con desiderio e passione: «È una delle ultime espressioni di fede, delle idee che avevo ereditato da mio padre e che portavo con me fin dall’infanzia» (I. Bergman). Anche perciò, forse, attraversò il mondo come un incendio.
“Il silenzio di Dio”, tema a me caro nel libro su “Yeshua”, fu elaborato in modo incommensurabile da Bergman in una trilogia di film dei quali questo è il più famoso.

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Il Posto delle Fragole
(1957)

Ingmar Bergman

Un vecchio medico parte in auto con la nuora, carica una coppia di autostoppisti, va a trovare la vecchissima madre, arriva all’università di Lund dove si festeggia il suo giubileo, il 50° anniversario della sua attività professionale. Alle vicende del viaggio si alternano sogni, incubi, ricordi che si fanno parabola sulla morte nascosta dietro le apparenze della vita. «…non avevo capito che Sjöström si era preso il mio testo, l’aveva fatto suo e vi aveva immesso le sue esperienze… Si era impadronito della mia anima nella figura di mio padre e se ne era appropriato…» (I. Bergman). È il più alto risultato di Bergman negli anni ’50 (Orso d’oro al Festival di Berlino 1958 e molti altri premi) e una delle opere, non solo cinematografiche, più umane e commoventi di tutti i tempi.

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La Donna che visse due Volte (Vertigo)
(1958)

Alfred Hitchcock

Capolavoro cinematografico tra i più profondi e struggenti della storia del cinema. Un film che sa trasportare realmente lo spettatore nella “vertigine” della passione e del dubbio, con un finale mozzafiato e due protagonisti d’eccezione: un tormentato James Stewart e un’affascinante Kim Novak.
Chi non l’ha mai visto alzi la mano e poi esca dall’aula, per favore...

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Toro Scatenato
(1980)

Martin Scorsese

Sceneggiato da Paul Schrader e Mardik Martin che si sono ispirati alla sua autobiografia, è la storia del campione mondiale dei pesi medi Jake La Motta, detto “il toro del Bronx” per le furenti capacità di picchiatore, ma soprattutto di incassatore. Conquistò il titolo nel 1949 contro Marcel Cerdan e lo cedette a Ray Sugar Robinson il 14 febbraio 1951. Costato 14 milioni di dollari e 2 anni di lavoro, è un… violento film sulla violenza, in cui la boxe è un supporto per il ritratto di un uomo eccezionale sul ring, ma esemplare, nella sua normalità, in privato, come prodotto avvelenato di una cultura, di un ambiente, di una società. Di questo mondo, fondato sulla violenza, Scorsese suggerisce la dimensione sociale di sfruttamento, mostrandone il funzionamento con acuta finezza. Il miglior film di ambiente pugilistico della storia del cinema. Preparatosi alla parte con un puntiglioso allenamento e aumentando di una trentina di chili, De Niro è sensazionale per la paranoica furia e l’umorismo sardonico con cui è calato nel personaggio. La splendida fotografia in bianconero di Michael Chapman, di potenza spettrale, è di una ricchezza cromatica che paradossalmente il colore non avrebbe mai raggiunto.

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Il Buco
(1960)

Jacques Becker

Philippe Leroy e Michel Constantin insegnano come si può fare cinema sensazionale senza l’ombra di un effetto speciale. Nel 1947 nel carcere della Santé di Parigi cinque detenuti tentano di evadere, scavando una galleria. Uno di loro tradirà. Un classico del cinema francese, opera che fa da cerniera tra i film cosiddetti “di qualità” e quelli della Nouvelle Vague. Racconta un gruppo di criminali con il loro volto, e la loro dignità, di uomini. Un inno alla libertà ma anche alla pazienza, all’amicizia, alla solidarietà di gruppo. Un’epopea alla Bresson, ma senza enfasi oratoria né messaggi umanitari.
Lo adoro e l’avrò rivisto almeno una decina di volte, senza mai stancarmi e ogni volta spegnendo il registratore con una sorta di groppo nostalgico in gola.

film

Casablanca
(1943)

Michael Curtiz

Film mitico sul quale il tempo sembra non avere presa, oggetto di culto per le giovani generazioni di mezzo mondo, amalgama perfetto di toni, generi, archetipi e stereotipi dell’immaginario collettivo, memorabile galleria di personaggi grandi e piccoli. È anche la più sottile opera di propaganda antinazista realizzata durante la guerra e la più decisiva eccezione alla teoria del “cinema d’autore”. La sua fonte è “Everybody Comes to Rick’s”, testo teatrale che non era mai stato messo in scena. Uscito in Italia verso la fine del 1945 in una versione censurata nei dialoghi per opera di qualche funzionario, presumibilmente ex fascista, vide eliminati i riferimenti ai fascisti italiani e tolto il personaggio del capitano Tonelli che all’aeroporto fa il saluto romano.
Pura leggenda del cinema: «suonala ancora, Sam».

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Stalker
(1979)

Andreij Tarkovskij

In questa pellicola c’è un piano sequenza di 7 minuti che non riesco a togliermi dalla mente fin dal 1982, quando vidi Stalker per la prima volta: è una lenta ripresa del pavimento di un fabbricato diroccato, coperto da tre dita d’acqua, e sotto il pelo dell’acqua scorrono oggetti dimenticati (una foto, un giocattolo, una tromba, un orologio, una forchetta...). Acido lisergico su celluloide.
Plot: al centro di una incolta regione industriale c’è una misteriosa “Zona”, di accesso proibito dalle autorità, dove molti anni prima precipitò un meteorite — o un’astronave? — sprigionandovi una potenza magica, capace di esaudire i desideri di chi riesce ad arrivarvi. Guidati da uno “stalker” (“to stalk” = inseguire furtivamente), uno scrittore e uno scienziato penetrano nella Zona, ma, giunti alla meta, rinunciano a entrare nella Stanza dei Desideri, suscitando l’indignazione della guida. Il 5° film di Tarkovskij, l’ultimo che girò nell’URSS, è, nella sua enigmatica compattezza, un’opera affascinante. Non è difficile riconoscere nello “stalker” e nei suoi congiunti le figure dei “poveri di spirito” dostoevskiani, degli umili evangelici che hanno bisogno della fede per mantenere accesa una scintilla di speranza e che si contrappongono agli intellettuali perché ormai, abbandonato ogni illusorio tentativo di intervento nella Storia, dei politici Tarkovskij più non si cura. Come accade con i poeti — e Tarkovskij faceva un cinema di poesia — la filosofia di Stalker passa attraverso l’emozione delle sue immagini.
Ammaliante e insano. Un deragliamento dei sensi.

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Lawrence d’Arabia
(1962)

David Lean

In questo sontuoso megafilm epico su uno dei più affascinanti avventurieri del primo Novecento, il vero protagonista è il deserto. Solida sceneggiatura di Robert Bolt, splendida fotografia, musica sovrabbondante, 7 premi Oscar (miglior film, regia, fotografia, colonna sonora, scenografia, montaggio e suono). All’epoca Peter O’Toole fu una rivelazione, e oggi i suoi occhi ammalati e deliranti costituiscono ancora lo sguardo più magnetico della decima arte. Ripristinato nel 1989 dallo stesso Lean in un’edizione di 212 minuti: ma non sono ancora riuscito a vederla.

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Un Uomo da Marciapiede (Midnight Cowboy)
(1969)

John Schlesinger

Indimenticabile Jon Voigt, cow-boy texano che arriva a New York deciso a fare soldi con le donne ma passa brutte esperienze e un duro inverno con Dustin Hoffman “Ratso” Rizzo, italo-americano zoppo e tubercolotico. Una strana amicizia che sboccia come un fiore nel fango di Manhattan. Fu per entrambi il 3° film e il definitivo lancio come star. Trovatemi qualcuno che non conosca la canzone «Everybody’s Talkin’» di Fred Neil, cantata e suonata da Harry Nilsson…

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Viaggio a Tokyo
(1953)

Yasujirô Ozu

Una coppia di anziani parte dalla cittadina costiera di Onomichi per Tokyo a far una rara visita ai due figli sposati, un medico e una parrucchiera, che li trattano come estranei e non hanno tempo di stare con loro. Soltanto una nuora vedova si dimostra contenta della loro compagnia. I temi, tanto cari a Ozu (nato nel 1903 e morto quando io nascevo), — l’instabilità della famiglia giapponese dopo la guerra, l’incomunicabilità tra generazioni, l’influenza negativa della vita urbana sui rapporti umani — sono raccontati con un doloroso pudore, una estrema lucidità, un linguaggio di depurata semplicità che ne fanno un capolavoro toccante. Importante è il personaggio della nuora che impersona la morale specifica del film, mostrando che chi ha meno ricevuto è anche chi darà di più. Da vedere insieme ai propri figli, specialmente se sono cresciuti.
Il film più delicato di tutti i tempi, come solo un giapponese poteva fare.

film

Gioventù bruciata
(1955)

Nicholas Ray

E James Dean si fece mito, emblema della gioventù “ribelle senza causa” degli anni ’50, e confermò Ray come uno dei cineasti più sensibili e originali di Hollywood. Molte sequenze memorabili, ma anche un eccesso di ingenuità sentimentale che oggi lo fa forse apparire un po’ datato. Tra gli attori di secondo piano anche il sempiterno Dennis Hopper. Sal Mineo impersona il primo minorenne gay nella storia di Hollywood.

film

Easy rider
(1969)

Dennis Hopper

La “versione motociclistica” di On The Road.
Billy e Wyatt, con i serbatoi delle moto imbottiti di droga, attraversano il sud dell’America in cerca di fortuna. Arrestati per aver sfilato insieme a una banda senza l’apposito permesso, vengono aiutati da un avvocato (Jack Nicholson giovanissimo) che decide di unirsi alla loro avventura. Road movie sceneggiato dai due interpreti principali, Peter Fonda e Dennis Hopper, è un racconto sulla libertà, un viaggio che ha per meta il Carnevale di New Orleans, la festa della città sul grande Delta. E stavolta è necessario un racconto amarissimo e crudele, che alla fine indigna senza parole, per denunciare lo squallore e la paura della provincia bianca e borghese del sud nel 1969. Una paura che si manifesta rozzamente nei confronti di qualsiasi minima traccia di “diversità”. Se a questo aggiungiamo l’evidenza di un grande cinema, in cui i paesaggi che cambiano, gli interpreti e la musica sembrano danzare all’unisono una ballata disperata senza scampo, allora diventa facile per lo spettatore riconoscere la presenza di una visione unica e irripetibile dell’immaginario cinematografico. E nella quale la mano dell’autore (con quegli scatti di montaggio che anticipano spesso le inquadrature successive) si rivela in tutta la sua destabilizzante natura.

film

I Sette Samurai
(1954)

Akira Kurosawa

Il film più citato (e rifatto) della storia. Molti fattori contribuiscono alla grandezza del 14° film di Kurosawa: la sapienza della costruzione narrativa (prologo, epilogo e 4 capitoli: la ricerca dei contadini, il reclutamento dei samurai, l’organizzazione della difesa, la battaglia che dura tre giorni e tre notti); l’ariostesca varietà degli episodi e dei registri narrativi unita alla bellezza figurativa dell’affresco corale nel Giappone del XVI Secolo; la straordinaria galleria dei sette, ciascuno dei quali rappresenta un diverso aspetto della moralità e del comportamento umano; la ricchezza dialettica nel confronto tra due culture; l’equilibrio tra la toccante elegia dei sentimenti e l’epica turbinosa dell’azione... L’epilogo è su una nota di virile malinconia: «noi samurai» dice Kambei, «siamo come il vento che passa veloce sulla terra, ma la terra rimane e appartiene ai contadini. Anche questa volta siamo stati noi i vinti; i veri vincitori sono loro». Magistrale.

film

Matrix
(1999)

Andy e Larry Wachowski

Un mondo che sembra reale ed è invece solo un paravento per nascondere la realtà vera. Seguendo un tatuaggio sulla spalla di una ragazza l’hacker Neo scopre che la cosiddetta ‘realtà’ è solo un impulso elettrico fornito al cervello degli umani da un’intelligenza artificiale. La Terra era sopravvissuta alla catastrofe ma l’umanità ha avuto bisogno delle macchine per sopravvivere. E queste hanno vinto. Ma le macchine necessitano degli uomini e della loro energia. L’illusione in cui li fanno vivere è finalizzata a ‘coltivarli’ meglio. Nessuno è a conoscenza del tempo che è passato da quando il neurosimulatore ha assegnato una data fittizia al tempo. Solo Neo, con l’aiuto del pirata informatico Morpheus e della bella Trinity, può tentare di scoprire la verità. Ma non sarà facile. I fratelli Wachowski fecero centro al box office (solo nelle prime due settimane di programmazione 73 milioni di dollari negli USA) e divisero il pubblico in due fasce nettamente distinte: chi aveva più di trent’anni faticava a entrare nella ‘logica’ del film, chi ne aveva meno replicava «è la logica del computer». Inserita in un mixer abilmente shakerato di filosofia orientale e arti marziali, di mitologia e di science fiction in cui il percorso che condurrà ‘oltre lo specchio’ vede in Neo (vistoso anagramma di One) la neo-Alice travestita da Ulisse. Cinema patchwork, sì, ma cinema capace di rappresentare un futuro che è già presente nella sua mescolanza (che non è amalgama) di dati, di esperienza e di cultura lontanissimi tra loro.
Film epico ed epocale con un solo “neo” di fondo: l’inevitabile (e deleterio) seguito (ben due film, ed entrambi stupidi) di un’opera che avrebbe dovuto invece restare un unicum.

film

West Side Story
(1961)

Robert Wise, Jerome Robbins

Shakespeare (mica Susanna Tamaro!) in musical, con risvolti sociologici: è la storia di Giulietta e Romeo trasferita nei quartieri popolari della West Side di New York City, con insistenza sui temi dei conflitti razziali e della violenza e con qualche spunto polemico verso i miti di libertà e tolleranza degli USA. I due assi vincenti sono le canzoni di Bernstein-Sondheim e le coreografie del geniale Jerome Robbins, spesso girate dal vero nella 68ª e nella 118ª Strada prima della loro demolizione. 10 premi Oscar, tutti almeno per una volta meritati. Notevoli anche i titoli di testa del geniale Saul Bass.

film

I Soliti Ignoti
(1958)

Mario Monicelli

Come lasciar fuori questo classico, che si rivaluta col tempo come i buoni vini? Gassman/Peppe, pugile balbuziente in disarmo, Mastroianni/Tiberio, che bada al pupo mentre la moglie è in prigione, Salvatori/Mario, perditempo bonaccione che si fa mantenere dalle vecchie zie, Murgia/Ferribotte, siciliano geloso della sorella Carmela (Claudia Cardinale), Pisacane/Capannelle, dalla storica fame arretrata... E Totò, il “maestro”. Si presenta l’occasione per un colpo facile: scassinare una cassaforte in tutta tranquillità, sfondando un sottile muro che divide un’abitazione privata dal monte dei pegni. La “banda” prepara tutto come ha visto fare nei film, usa tutti i mezzi necessari, riprende persino (con cinepresa rubata) il luogo del colpo. Alla fine agiscono, aprono porte e sfondano il muro, solo che, per un insignificante cambio di mobili, si trovano nella cucina dello stesso appartamento. Nel frigorifero c’è pasta e ceci. Siedono al tavolo e... cenano!
Val la pena di fare altri nomi: Age, Scarpelli e Suso Cecchi D’Amico alla scrittura. E naturalmente Monicelli alla regia. Capolavoro per molte ragioni. Il “comico” che diventa “cosa seria”, non solo espressione di gag estemporanee o di gestacci scontati e conosciuti; Gassman, fino ad allora noto per i classici in teatro o per ruoli di cattivo (alla “Riso amaro”), che diventa un attore comico, e continuerà su quella strada (“La grande guerra”, “Brancaleone”, “Il sorpasso”); la forza irresistibile di certi caratteri — Murgia e Pisacane — che divennero precedenti imprescindibili; la capacità del film di rappresentare, col sorriso-un-po’-triste, quel momento storico difficile ma che forse sarebbe stato abbastanza felice — e penso che in effetti lo fu, gli infelici siamo noi oggi —. Non si contano i remake, anche a Hollywood. Sarebbe seguita la stagione della cosiddetta “commedia all’italiana”, capace (quasi) di riproporre la straordinaria qualità e importanza del movimento neorealista di vent’anni prima. La memoria del cinema rimanda alcune sequenze magnificamente storiche: la lezione di cassaforte di Totò, Gassman balbuziente che conta il tempo e dieci secondi diventano un minuto, il muro interno sfondato per niente. I soliti ignoti rappresenta quel “sorriso intelligente” che è un’opzione primaria e benemerita del cinema, da Chaplin a Tati, da Wilder a Allen. Con questo Monicelli siamo da quelle parti e a quei livelli. Visceralmente bello. Un’Italia che abbiamo irriso e che invece adesso rimpiangiamo.

film

Gli Amanti Perduti (Les Enfants du Paradis)
(1943)

Marcel Carné (ma scritto da Jacques Prévert)

Irripetibile, è un film più grande della vita, un capolavoro senza tempo che conserva intatto il fascino della poesia eterna.
Apparve in Francia in due episodi: “Il boulevard del delitto” e “L’uomo in bianco”. Carné elaborò una sintesi di 100 minuti che è quella vista in Italia. Siamo nella Parigi del 1840, il mimo Baptiste Debureau (Barrault), romantico e malinconico, incanta le folle del teatro dei Funambules, commuovendo i ragazzi del loggione (Les enfants du paradis). Si innamora perdutamente di Garance, donna dal fascino inarrivabile che per lui lascia Lacenaire, bandito dandy. Garance è però volubile e abbandona anche il timido, innamoratissimo Baptiste per il grande attore Lemaître, poi per il conte di Montray, di cui diventa la mantenuta. Dopo qualche anno Baptiste, divenuto famoso e sposatosi con Nathalie, rivede Garance che non ha resistito a non andare al suo spettacolo. Fra loro si apre un duetto d’amore che è il canto più alto del romanticismo nel cinema. Lemaître, che per ironia della sorte interpreta Otello, è pazzo di gelosia. Lacenaire, insultato dal conte di Montray, lo uccide. La notte d’amore con Garance porta all’estasi Baptiste, che per lei trascura la dolce Nathalie. Ma a carnevale gli amanti si perdono. Garance fugge per le strade tumultuose di Parigi. Baptiste, disperato, la insegue senza speranza... che tourbillon, ragazzi!
Romantico e poetico oltre ogni limite. Il racconto di Carné ha la fluidità stessa della vita e della storia, ricrea l’epoca di Victor Hugo con i colori della passione e la spietatezza del fato. Carné ha trasportato nella storia il suo mondo di realismo poetico fatto di bistrot, alberghi a ore, teatrini, apaches, mimi. Ha messo in scena la grande letteratura francese di Hugo, Sue, Balzac. Prévert la interpreta con la sensibilità di quello che sarà tra poco l’esistenzialismo di Sartre, Juliette Greco e delle caves.

film

La Pantera Rosa sfida l’Ispettore Clouseau
(1976)

Blake Edwards

Come non omaggiare la coppia Edwards-Sellers, con questo film impossibile che contiene all’inizio 15 esilaranti minuti consecutivi da infarto al miocardio per le risate (Sellers che al buio cammina cammina cammina... ed è su un tapis-roulant, e poi «Alè, mi chiamavano il mago delle parallelè!» con capitombolo...).
Il plot è poca cosa: il vecchio ispettore capo Dreyfus, ormai impazzito, non ha che uno scopo nella vita, uccidere Clouseau; per questo crea un’associazione criminale e si appropria di un ordigno capace di distruggere il mondo. Ma il plot non conta, se hai nel cast Peter Sellers con l’accento francese. «Vorrei una stonza», «Vuol dire una stanza?», «E io che ho detto?... Carino, questo cane. Il suo cane morde?», «No, il mio cane non morde», «Ahh, bello cane, bello...» (il cane gli morde la mano) «...aargh! Ma aveva detto che il suo cane non morde!», «Sì, ma quello lì non è il mio cane!»...

film

Lo Spaventapasseri
(1973)

Jerry Shatzberg

Insieme i due più grandi attori di Hollywood: Al Pacino e Gene Hackman. E vorrei vedere chi non è d’accordo.
Due drifters — vagabondi che vanno in giro per le strade dell’America, dormendo dove capita —, uno appena reduce dalla galera, l’altro tormentato dal rimorso di aver abbandonato la ragazza che gli ha dato un figlio, diventano amici per la pelle e progettano di andare a Pittsburgh ad aprire una stazione di servizio. Finirà male. Splendida fotografia del mago Vilmos Zsigmond.

film

Scarface
(1983)

Brian De Palma

La tragedia epica greca fatta film...!
Un remake che rende onore al proprio ispiratore, qui magistralmente attualizzato e ampliato nei contenuti. Oliver Stone stende una sceneggiatura cruda, ritratto di un mondo fatto di polvere bianca e potere, pupe e disco-music. Grazie all’elegante mano di De Palma, l’opera danza sul ribaltamento del punto di vista: ci si scoprirà a simpatizzare per la mina vagante Tony Montana, lo “scarface” (sfregiato), selfmade-boss scaltro e ligio al proprio, seppur deviato, codice d’onore. Montana, rozzo cubano di umili origini, incarna gli ideali del ghetto portandoli all’estremo, costruendo dal nulla un impero economico basato sull’illegalità. Un titanismo incurante di qualsiasi limite umano plasma la (s)folgorante parabola del protagonista, vittima della propria fremente volontà di potenza. Il prodotto finale, lontano dalle ovattate atmosfere de ‘Il padrino’, è una feroce rilettura del capitalismo, dove il sogno americano si rivolta contro se stesso, e la cultura del dollaro si affianca ineluttabilmente all’eccesso, preludio all’autodistruzione. Affiancato da una splendida Michelle Pfeiffer agli esordi, Al Pacino regala l’anima a un antieroe leggendario, contribuendo a creare un’opera che traccia nuove linee guida per il futuro del genere (e non solo). Un monumentale dramma corvino, serio candidato al titolo di gangster-movie stradaiolo definitivo. Indimenticabile il tragico crescendo finale, che Euripide non avrebbe potuto scrivere meglio, con Pacino riempito di piombo eppure indistruttibile, sorretto solo dalla rabbia, una violenza che non è fine a se stessa ma espressione emotiva totale.

film

La conversazione
(1974)

Francis Ford Coppola

Tra un Padrino e l’altro, nel 1974 Francis Ford Coppola fece “La conversazione”, thriller di culto con Gene Hackman. Un gioiello ancor oggi piuttosto sottovalutato perché stretto tra due dei più grandi film della storia del cinema.
Agli inizi degli anni Settanta Coppola era probabilmente il massimo rappresentante di quella corrente di rinnovamento del cinema statunitense nota come “Nuova Hollywood”, animata da registi che cominciavano a ottenere fiducia dalle case di produzione, potendo contare su un maggiore controllo creativo sulle loro opere. La fama spropositata che Coppola aveva raggiunto in quel periodo derivava quasi interamente dal primo “Il padrino”, il film più famoso di quella stagione e il gangster movie più influente di tutti i tempi, che aveva ottenuto un successo senza precedenti.
La conversazione per una coincidenza temporale piuttosto particolare fu un film in qualche modo “profetico”. Anticipò infatti di pochi mesi il cosiddetto Scandalo Watergate, partito dalla scoperta di una serie di intercettazioni che il Partito Repubblicano statunitense effettuò all’interno della sede del Partito Democratico, e che portò alle dimissioni di Nixon. Anche La conversazione raccontava una storia di spionaggio: quella di Harry Caul (Gene Hackman), agente specializzato in sorveglianza e intercettazioni e caratterizzato da una certa fissazione per il concetto di riservatezza, talmente immerso nel suo mondo di microfoni, antenne e nastri da non vedere, da non capire.
Al di là di tutte le speculazioni del caso, il film ottenne scarsi introiti al botteghino ma un successo di critica enorme, dovuto anche alla grande qualità del comparto tecnico che Coppola coinvolse nella produzione, e in particolare al montaggio di Walter Murch e Richard Chew, considerato avveniristico e praticamente perfetto dalla maggior parte degli addetti ai lavori. Gene Hackman, inoltre, era un attore in stato di grazia, Oscar tre anni prima per “Il braccio violento della legge”: il personaggio di Caul è l’allegoria perfetta di Nixon, perché diffidente nel dire la verità, socialmente imbarazzante, autoisolato, incline all’ossessione e disfunzionalmente paranoico, e viene distrutto dalle sue stesse registrazioni.
Questo piccolo capolavoro, documento feroce contro le assurdità del progresso tecnico, che annichilisce la personalità dell’uomo senza per questo garantirgli una maggiore dignità o efficienza, fu oscurato dall’uscita, praticamente nelle stesse settimane, de “Il Padrino – parte II”, sequel che venne giudicato alla pari se non addirittura superiore al primo capitolo.

film

Il paziente inglese
(1997)

Anthony Minghella

Dal romanzo di Michael Ondaatje, scrittore canadese di origini indiane. Africa del nord, anni di guerra: il conte ungherese Laszlo de Almásy (Ralph Fiennes), mappatore geografico per conto della Royal Geographic Society inglese, morente e sfigurato da un incidente aereo, viene condotto da Hana (Juliette Binoche), infermiera franco-canadese che non lo abbandona un solo istante, in un monastero diroccato in Toscana. Il conte, sedicente smemorato, con un filo di voce racconta del suo passato, del grande amore per Katherine (Kristin Scott Thomas) e della tragedia di averla perduta per averla abbandonata — suo malgrado — ferita nel deserto. Alla fine l’infermiera allevia le sue sofferenze aiutandolo a morire.
I nove Oscar pongono di diritto il titolo in una posizione d’onore nella storia del cinema. Parte della critica lo ha minimizzato («polpettone sentimental-avventuroso», «smielata e retorica love story», «passerella di divi che provano a riempire un quadro di desolante pochezza» e altri simili giudizi) perché era diventato di moda, e perché possiede tante prerogative che deve possedere il grande cinema: storia realistica e potente, sentimento, natura, avventura, musica, base letteraria ben gestita. Ma è proprio in questo smaccato “paraculismo” che paradossalmente sta la sua bellezza: è un kolossal costruito ad arte per fare incetta di premi, e non fa nulla per nasconderlo. E io, a ogni visione (lo rivedo ogni tot anni), regolarmente verso fiumi di lacrime tutte le volte che Almásy esce dalla “caverna dei nuotatori” piangendo disperato con in braccio il corpo senza vita di Katherine, e ho i brividi nell’ascoltare le ultime parole scritte da lei mentre attende invano, immobilizzata e con la lanterna che si sta esaurendo, che Almásy torni a salvarla: «Moriamo ricchi di amanti e di tribù, di gusti che abbiamo inghiottito, di corpi che abbiamo penetrato risalendoli come fiumi […] Siamo noi i veri paesi, non le frontiere tracciate sulle mappe con i nomi di uomini potenti. Lo so che tornerai e mi porterai fuori di qui nel palazzo dei venti. Non ho mai voluto altro che camminare in un luogo simile con te, con gli amici. Una terra senza mappe»…
Anche questo è “cinema” — e anzi una volta era esattamente e propriamente questo, il cinema.

film

Agora
(2010)

Alejandro Amenábar

Meticolosa (e sontuosa) ricostruzione storica per quella che non è soltanto la storia di Ipazia di Alessandria, intellettuale perseguitata dai cristiani per il suo rifiuto di piegare la propria integrità alle loro mire politiche; è anche una splendida esplorazione del legame tra religione e progresso, tra tolleranza, solidarietà umana e avanzamento scientifico. Film apprezzabile come pochi per la sua compattezza concettuale e per la capacità del regista spagnolo di associare le scelte visive agli elementi di sceneggiatura in maniera spesso illuminante.
Non si può non simpatizzare con questa Ipazia (cui gli occhioni dolci ma fermi di Rachel Weisz conferiscono ulteriore spessore emotivo), donna che lotta per le sue idee, non cede alla conversione forzata al Cristianesimo che gli altri invece seguono, simbolo di una “civiltà precedente” che non si arrende al conformarsi alla spinta egemone della nuova religione che, se agli albori era stata perseguitata dall’Impero Romano, da questo momento in avanti (siamo attorno al 392 d.C.) comincia a restituire il favore in barba ai migliori insegnamenti in tema di misericordia e perdono.
Indimenticabili due elementi: l’uso di carrellate che dalla baia di Alessandria si allontanano dalla superficie terrestre, immagini astronomiche che “ridimensionano” la portata degli eventi narrati, delle guerre di potere e dei conflitti religiosi, come se le umane questioni nella loro piccolezza fossero scrutate da un Dio — o dèi — distante e indifferente che abita la serenità del cosmo; e la straziante distruzione della Biblioteca di Alessandria, uno degli eventi più disastrosi di sempre per il genere umano (la stupida furia cristiana causò la perdita di gran parte del sapere antico ivi conservato).
Impressionante, infine, la “veridicità” dei gruppi religiosi del IV Sec., periodo cruciale per la trasformazione del Cristianesimo da ‘setta fuorilegge’ a credo universale: l’autore dei dialoghi ha fatto un lavoro portentoso.

film

Shining
(1980)

Stanley Kubrick

Ho aperto con il mio regista preferito, non posso che chiudere con quel suo indelebile Nicholson pazzo.
Dal romanzo di Stephen King: sotto l’influenza malefica dell’Overlook Hotel sulle Montagne Rocciose, dove s’è installato come guardiano d’inverno con moglie e figlio, Jack Torrance sprofonda in una progressiva schizofrenica follia che lo spinge a minacciare di morte i suoi cari. Più che un film dell’orrore e del terrore, è un thriller fantastico di parapsicologia; l’aneddotica di Stephen King diventa fiaba e rilettura di un mito — di molti miti, da quello di Saturno a quello di Teseo e del Minotauro, per non parlare del tema dell’Edipo —. Il prodigioso brio tecnico-espressivo è al servizio di un discorso sul mondo, sulla società e sulla Storia. Totalmente pessimista, Kubrick nega e fugge la Storia ma affronta l’Utopia riaffermando che le radici del Male sono nell’Uomo, animale sociale, e lo fa non negando bensì esaltando la possibilità di una riconciliazione futura, attraverso il bambino e la sua luccicanza (‘shining’), e quella di una nuova e diversa concordia. Ottimo doppiaggio di Giancarlo Giannini per Nicholson.
(Pauroso? Ma quando! È solo un film gigantesco.)

Dovessi mettere i film in una classifica? Sarebbero incolonnati così:

1 - 2001, Odissea nello Spazio
2 - Apocalypse Now!
3 - A Qualcuno piace Caldo
4 - I Quattrocento Colpi
5 - L’infernale Quinlan (Touch of Evil)
6 - Umberto D
7 - Il Padrino, parte II
8 - La lunga Estate calda
9 - Il Posto delle Fragole
10 - Blade Runner
11 - Un Volto nella Folla
12 - Qualcuno volò sul Nido del Cuculo
13 - The Manchurian Candidate
14 - La Parola ai Giurati (12 angry men)
15 - Quarto Potere (Citizen Kane)
16 - Scarface
17 - Blow Up
18 - Shining
19 - Toro Scatenato
20 - Casablanca
21 - Il Settimo Sigillo

22 - La Donna che visse due Volte (Vertigo)
23 - Il Buco
24 - Pulp Fiction
25 - Taxi Driver
26 - La conversazione
27 - Stalker
28 - Viaggio a Tokyo
29 - I Soliti Ignoti
30 - L’Uomo del Banco dei Pegni
31 - Gioventù bruciata
32 - I Sette Samurai
33 - Lawrence d’Arabia
34 - Matrix
35 - Kramer contro Kramer
36 - Lo Spaventapasseri
37 - Un Uomo da Marciapiede (Midnight Cowboy)
38 - West Side Story
39 - Gli Amanti Perduti (Les Enfants du Paradis)
40 - Easy rider
41 - La Pantera Rosa sfida l’Ispettore Clouseau
42 - Il Dormiglione
43 - Il paziente inglese
44 - Agora

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